Può essere utile oggi iniziare a condividere con i cittadini le decisioni assunte secondo il livello di adesione ai servizi e il livello di soddisfazione dell’utenza. Da un lato potrebbe migliorare l’efficacia della spesa pubblica, e dall’altro far meglio percepire il lavoro che molte amministrazioni conducono per favorire la diffusione della cultura sul territorio. L’analisi di Stefano Monti, partner Monti&Taft
Nel 2020, le sole amministrazioni comunali hanno speso, in cultura, € 1.650.160.997,36.
Una cifra che, di certo, merita di essere approfondita. Prima di procedere in tal senso, però, è importante considerare un elemento che per quanto banale è essenziale subito richiamare: la dimensione della finanza pubblica è tutt’altro che semplice.
Sono numerose le variabili che vanno prese in considerazione, e il dataset consultato (openpolis su dati openbilanci) indica, per ogni comune, soltanto il numero di abitanti, la quota di spesa inserita a bilancio e la conseguente quota di spesa pro-capite. Sono inoltre presenti molti comuni che hanno registrato un valore pari a 0 in spese culturali, così come numerosi sono i comuni per i quali il dato non è riportato.
Perché tali premesse? Perché, la finanza pubblica è, appunto, complessa, ed è necessario procedere con cautela, evitando delle semplificazioni che porterebbero ad affermazioni che per quanto non false, sarebbero altrettanto non realistiche.
Per fare un esempio, questi dati permettono di affermare che, nel 2020, il Comune di Santo Stefano di Sessanio, nella provincia di L’Aquila, è quello che ha sostenuto la principale spesa pro-capite in tutta Italia per cultura, con una spesa pari a più di 3.000 € ad abitante. Ciò fa di Santo Stefano di Sessanio il Paese con più cultura in Italia? Probabilmente no.
Ciò non significa che dati abbiano una scarsa valenza nell’interpretazione della realtà. Tutt’altro: essi possono essere posti alla base di molteplici riflessioni, purché realizzate nel rispetto dei dati e dei lettori.
La prima, e forse la più banale delle riflessioni che possono emergere dall’analisi di tali dati è di tipo qualitativo: i cittadini italiani sono davvero consapevoli che nel solo anno del Covid, i soli Comuni hanno investito per la cultura una cifra aggregata così considerevole?
Probabilmente no.
E questo è, senza dubbio, un problema.
Non avere contezza di questa tipologia di spesa può derivare infatti da una serie piuttosto limitata di opzioni, e tutte comportano una problematica di consapevolezza sul ruolo esercitato dalle amministrazioni locali.
Perché senza dubbio molti si sorprenderanno perché non hanno contezza della “spesa aggregata” in altri settori, ma molti altri si sorprenderanno perché, pur avendo contezza di quanto nel nostro Paese si investa in salute o in altri grandi temi, non percepiscono tale spesa congrua con i risultati.
Può essere utile semplificare. Si ipotizzi, ad esempio, il caso di un comune in cui l’amministrazione, in un dato anno, ha speso più di 300 euro per abitante in cultura. Ora si ipotizzi, come sinora fatto, che molti dei cittadini non si aspettino che l’Amministrazione abbiamo sostenuto spese per tale cifra.
In questo caso emerge con chiarezza che, al di là dell’ignoranza dei singoli, e al di là delle ipotesi di mala gestio, da queste condizioni si possano trarre soltanto due conclusioni: (a) il Comune in esame ha investito male tali risorse; (b) il Comune in esame ha investito tali risorse in modo efficiente, ma il risultato finale di tale investimento non è percepito tale dai cittadini.
In entrambi i casi, dunque, si tratta di investimenti che hanno generato un “valore pubblico” inferiore al loro valore economico-finanziario. Un caso che, bisogna dirlo, è tutt’altro che raro nel nostro Paese, e che malgrado la sua rilevanza, tende ad essere una grandezza molto fuggevole all’interno del discorso pubblico.
Degli esempi potrebbero essere utili: l’amministrazione di un piccolo comune decide di investire 10.000 € in attività volte a favorire la socialità infantile attraverso la lettura (letture ad alta voce tra pari, ecc.). Si tratta senza dubbio di una spesa meritevole e, se ben costruita, può risultare senza ombra di dubbio anche efficiente sotto il profilo economico e finanziario.
Tuttavia, il valore pubblico generato non è dato dalla differenza tra ricavi e costi. Il valore pubblico generato è dato da quanto le persone apprezzino tale servizio, dove apprezzare (dal latino ad pretium) vuol dire proprio dare un prezzo/un valore a tale iniziativa.
Questo elemento può dipendere da un insieme molto eterogeneo di motivi, che includono elementi legati esclusivamente alla domanda, e vale a dire quanto tale servizio risponda ad un bisogno tacito o esplicito della cittadinanza, a cui si aggiungono motivi territoriali, come ad esempio la presenza di servizi complementari rivolti alla stessa fascia d’età, aspetti logistici, come ad esempio la previsione di orari poco coerenti con i tempi di vita-lavoro della cittadinanza o l’organizzazione di tale iniziativa in luoghi non facilmente raggiungibili, fino ad elementi legati alla comunicazione dell’iniziativa.
Oltre a poter essere generato da una serie molto ampia di variabili, il disallineamento tra valore economico-finanziario e valore pubblico percepito è anche un elemento che potrebbe risultare di difficile misurazione e valutazione, sebbene alcune metriche possano essere prese in considerazione: una metodologia dall’impostazione di tipo accademico quella della valutazione contingente, in cui si chiede ai cittadini quanto siano disposti a pagare per quel servizio o, al contrario, quanti soldi siano disposti ad accettare pur di rinunciare a tale servizio; altre tipologie di metriche possono essere quelle legate all’analisi della soddisfazione degli utenti, al numero di utenti, e ad altre tipologie di analisi che misurino l’effetto sociale del servizio.
Sulla scorta di tali riflessioni, appare chiara la ragione per cui l’analisi del valore pubblico generato attraverso la spesa in cultura risulti essere così poco popolare. Ma è altresì vero che tali condizioni sono tuttavia alla base di qualsivoglia investimento privato.
Detto in altri termini: prima di avviare ciascun tipo di investimento, il soggetto privato si interroga sempre sulla reale utilità percepita del servizio offerto. Da tale utilità, nel caso del privato, deriva il successo dell’iniziativa, e di conseguenza anche il fine di rientro dall’investimento o di lucro a seconda dei casi. Inoltre, il soggetto privato monitora costantemente il livello di adesione ai servizi e il livello di soddisfazione dell’utenza, perché sulla base di tali dinamiche può prevedere come migliorare il valore percepito dai propri utenti e quindi, incrementare i propri profitti o in ogni caso estendere la propria base di utenti.
Il riconoscimento dell’importanza di tali misurazioni è tale che, ormai in quasi tutte le gare relative all’offerta di servizi culturali, al soggetto privato che concorre viene chiesto di sviluppare delle analisi per valutare l’adesione ai servizi e il livello di soddisfazione dell’utenza, mentre tali dimensioni risultano scarsamente rappresentati nelle spese che vengono condotte direttamente dalle amministrazioni.
Forse, iniziare a condividere con i cittadini le decisioni assunte sotto questo versante, potrebbe da un lato migliorare l’efficacia della spesa pubblica in cultura, e dall’altro far meglio percepire ai cittadini il lavoro che, indiscutibilmente, molte amministrazioni conducono per favorire la diffusione della cultura sul territorio.
Soprattutto, iniziare ad applicare tali metodologie ridurrebbe anche gli sprechi di risorse pubbliche. Perché lo spreco non avviene soltanto quando si spende 100 per comprare qualcosa che si poteva trovare a 10. Lo spreco avviene anche quando un’amministrazione riesce a produrre a 10 € un servizio che altrove costerebbe 100 € (efficienza) ma che ai cittadini non interessa affatto avere.
Non si può certo generalizzare: ci sono servizi che è utile produrre sul territorio, talvolta anche a prescindere dall’effettiva domanda. Ma non tutti i servizi culturali rientrano davvero in questa casistica.