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Bruxelles forza i Paesi ad aggiustare i macrosquilibri. Gli scenari per l’Italia

Le regole proposte con la revisione del Patto di stabilità tracciano un percorso obbligato entro cui viene costretta una parte importante della politica economica. Nelle situazioni, come quella italiana, di forte dipendenza della crescita dall’Ue e da volubili mercati finanziari, gli spazi di autonomia si riducono sui disavanzi di bilancio e sul debito pubblico. Per i governi politici si prospettano scelte difficili, perfino impopolari, per porre un freno alla spesa corrente

L’ultima proposta della Commissione europea di revisione del Patto di stabilità e crescita (Psc) non si distanzia dalla prima presentata a febbraio scorso, ma mette in luce alcuni aspetti caratterizzanti dell’approccio al risanamento delle finanze pubbliche dei Paesi membri in un quadro di maggior rigore e di apparente semplificazione degli adempimenti richiesti. Non si può neanche dire che ponga le basi per una politica economica di portata europea, benché si ricolleghi ai Pnrr nazionali e tenda a integrare in un unico programma nazionale aggiustamenti di bilancio pubblico, riforme e investimenti. In realtà, è assente una politica della domanda che coordini quelle degli Stati per rilanciare la crescita, non tiene conto della tassazione, né delle politiche in comune, segnatamente di quella commerciale verso l’estero e di quelle “industriali”, divenute sempre più urgenti in un periodo di rivoluzione tecnologica e di rischi di dipendenza da Paesi non sicuri.

Un primo aspetto da evidenziare è la grande continuità con i parametri quantitativi dell’attuale Psc, che rimangono, oltre che distanti obiettivi, come discriminanti tra Paesi per l’applicazione di regole più cogenti e quindi più invasive sull’evoluzione delle politiche economiche dei Paesi fuori parametri. Alla fine dello scorso anno soltanto quattro Paesi dell’euro, peraltro con economie di dimensioni minori, rientravano in entrambi i parametri del 3% di disavanzo pubblico e 60% di debito pubblico su Pil. Al di sopra del limite di deficit si collocavano, invece, i bilanci di 5 Paesi oltre al nostro, mentre ben 13 Paesi superavano il limite sul rapporto debito/Pil. Tra questi ultimi l’Italia si trova in compagnia di Francia, Spagna e anche della Germania, benché l’eccedenza tedesca sia la più contenuta.

Guardando alle ultime proiezioni del Fmi per il prossimo triennio, si stima che la Germania possa rientrare entro il limite del disavanzo nel 2024, l’Italia nell’anno successivo come la media dell’area euro, ma Francia e Spagna non rientrerebbero fino al 2028. Rispetto al parametro sul debito, il Fmi ritiene che solo la Germania tenda attualmente a portarsi entro il limite, ma nel 2028. In nessuno degli altri paesi del G7, inclusi gli Stati Uniti, il debito tenderebbe a raggiungere quel limite, né a scendere sotto il 100% del Pil, con l’eccezione del Canada nel 2025. Nella media dell’area dell’euro il rapporto si abbasserebbe appena di 4,4 punti percentuali in sei anni, ovvero dall’89,8% nel 2023 all’85,4% nel 2028.

Da questa realtà di partenza e dai dati prospettici si possono trarre due principali conclusioni. Primo, raggiungere l’obiettivo debito/Pil del 60% è del tutto irrealistico in un orizzonte di medio-lungo periodo, ad eccezione del caso di fiammate d’inflazione che ne falcidierebbero la consistenza, sempre che non fossero seguite da altrettante scalate delle spese in disavanzo. Secondo, in presenza di cospicui sforamenti dei due limiti, forzare i Paesi inosservanti a rientravi attenendosi a una percentuale prefissata di correzione, come la regola di un ventesimo all’anno, comprometterebbe l’impiego delle leve di bilancio per sostenere la crescita nelle fasi negative del ciclo economico. Giustamente, nella proposta della Commissione, non si fissa una percentuale minima di riduzione annua del debito, ma si stabilisce che al termine del periodo del piano la sua consistenza sia inferiore a quella di inizio e che ci sia un aggiustamento annuale del disavanzo di almeno mezzo punto percentuale di Pil fin quando lo stesso supererà il limite del 3%.

Alla luce delle regole proposte, l’attuale politica di bilancio del governo italiano risulta del tutto in linea per i prossimi tre anni. Secondo il quadro programmatico dell’ultimo Def, l’indebitamento netto verrebbe ridotto fino al 2026 di oltre mezzo punto all’anno, il saldo primario sarebbe riportato in positivo dal prossimo anno ed aumenterebbe nel biennio seguente, e il debito al lordo dei sostegni ad altri Paesi sarebbe ridotto dal 142,1% Pil nel 2023 al 140,4% nel 2026. Naturalmente, questo scenario si basa su ipotesi di contesto economico internazionale ed interno che possono non verificarsi per una serie di fattori. Va anche considerato che se le nuove regole iniziassero ad operare dal 2024, un programma standard coprirebbe il quadriennio fino al 2027 (e non al 2026), periodo che potrebbe essere esteso al 2030 nel caso di impegni ad attuare un piano consistente di investimenti e riforme. È proprio la natura molto incerta, ovvero meramente probabilistica, di qualsiasi ipotesi di scenario a lungo termine che si adottasse, che mostra quanto vulnerabile sia la posizione del Paese e a quanto rigore dovranno essere improntate le sue politiche per rispettare le regole proposte.

Rimane, peraltro, incontrovertibile che in una unione monetaria non estesa a un bilancio in comune occorrono regole per garantire la sostenibilità di disavanzi e debiti nazionali, in specie al fine di prevenire situazioni di insolvenza di un Paese, che riverserebbero sugli altri l’onere del salvataggio. In assenza di progressi verso un assetto federativo dell’Ue, l’applicazione delle regole proposte a tutti i Paesi attualmente inosservanti dei parametri, pur essendo meno rigida del Psc attuale, costringerebbe probabilmente l’economia dell’area euro a un lungo periodo di bassa crescita. La possibilità di un maggior slancio finirebbe col dipendere principalmente dalla domanda estera e dai progressi nella produttività, negli investimenti e nell’espansione demografica, stante il perdurare dell’attuale restrizione monetaria. Le regole in effetti non offrono snodi o margini di flessibilità sufficienti rispetto al percorso di aggiustamento concordato, se non nel caso in cui il Consiglio applicasse la clausola di salvaguardia (general escape clause) a causa di una grave recessione nell’area (e non in un singolo paese), come durante la pandemia.

Le rigidità toccano anche altri momenti del processo di formazione dell’itinerario pluriennale di aggiustamento, aspetti già criticabili nella precedente versione delle proposte. Se la Commissione afferma di mirare a rendere il piano un prodotto in autonomia del Paese (senso di ownership), di fatto ne mantiene la guida, in quanto ne formulerebbe in via preliminare la traiettoria, definita “tecnica”, sulla base dell’analisi di sostenibilità del debito. Da questo esercizio si deriva l’itinerario pluriennale della spesa pubblica a cui il paese deve attenersi, itinerario che non verrebbe aggiornato secondo l’evoluzione del contesto economico-finanziario, ma rimarrebbe invariato lungo tutto il programma. Il paese deve tenere conto di questo tracciato nel definire il suo programma e giustificare gli eventuali scostamenti dalle indicazioni della Commissione per ottenere il suo accordo. Ma attenersi a qualsiasi tracciato predeterminato ed immutabile può determinare nel corso degli anni eccessi o difetti di aggiustamento, che possono condurre a indesiderate distorsioni economiche.

D’altronde, focalizzarsi sull’andamento della spesa come unico parametro obiettivo per la sorveglianza sull’attuazione del programma implica la necessità di alcune scelte di definizione di rilevante significato. Ad esempio, va determinato se bisogna misurarla in termini reali (ossia, al netto dell’inflazione) oppure nominali, che sarebbero più restrittivi in anni d’inflazione, o ancora al netto della componente ciclica, e con quale cadenza temporale va verificata: annuale, pluriennale, o infrannuale. L’inclusione della spesa per gli investimenti e le riforme nell’aggregato da limitare accentua il carattere restrittivo dell’aggiustamento tracciato, perché pone il paese di fronte al dover comprimere le spese correnti, anche quelle obbligatorie, per finanziare l’espansione di quelle per investimenti e riforme, che sono essenziali per raggiungere gli obiettivi di risanamento e crescita. Il rigore delle regole proposte è rafforzato dall’innesco automatico della procedura per disavanzo eccessivo qualora si riscontrassero deviazioni dal percorso pattuito, con poco margine per tener conto di fattori imprevedibili ed eccezionali.

La diversità dei percorsi di aggiustamento tra Paesi lascia, tuttavia, indeterminato come sarà assicurata la parità di trattamento, in particolare tra le maggiori economie. Probabilmente, sarà una decisione politica del Consiglio a definire la questione e lo sarà anche attraverso negoziati e compromessi. Da negoziare anche la gradualità nel tempo dell’aggiustamento richiesto. In questa fase negoziale si potrà verificare quanto peso aggiuntivo rispetto al passato le nuove regole daranno al paese. Un aspetto positivo è dato dall’inquadramento del programma Pnrr e delle riforme nell’ambito della strategia per l’aggiustamento di bilancio, con la conseguenza che se ne tiene conto nel definire tempi ed intensità del risanamento finanziario. La semplificazione delle regole e degli adempimenti apparentemente riduce la portata delle verifiche di sostenibilità e dell’osservanza del programma, in quanto la vigilanza si concentra soltanto sul confronto dell’indicatore di spesa con l’obiettivo, eliminando i precedenti riferimenti ad altri parametri e ai rapporti annuali su stabilità, convergenza e riforme. Tuttavia, in realtà, questi continueranno ad essere rilevanti per la formulazione iniziale del percorso di aggiustamento e nell’ambito della Procedura per gli squilibri macroeconomici, che è parte integrante del “Semestre Europeo” (esercizio annuale di sorveglianza e coordinamento delle politiche economiche di tutti i Paesi dell’Ue).

Nelle nostre democrazie parlamentari ci si potrebbe chiedere che voce è lasciata alle decisioni dei parlamenti nazionali. Le regole proposte, infatti, tracciano un percorso obbligato entro cui viene costretta una parte importante della politica economica. In via di principio, i parlamenti conservano le loro prerogative di indipendenza nell’approvare o respingere o modificare i programmi di aggiustamento di bilancio concordati tra governo e Commissione. In realtà, in situazioni, quale quella italiana, di forte dipendenza della crescita dall’Unione europea e da volubili mercati finanziari internazionali, gli spazi di autonomia si riducono notevolmente in materia di disavanzi di bilancio e debito pubblico, ma non nel definire riforme, allocazioni di spesa ed investimenti, sempre che non comportino sforamenti dal tracciato di risanamento finanziario. Per i governi di qualsiasi matrice politica, quindi, si prospettano scelte difficili, perfino impopolari, per porre un freno alla spesa corrente.



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