Sono stati avanzati tre argomenti in opposizione alla riforma costituzionale proposta dal governo, tutti e tre surreali. Il corsivo di Andrea Cangini
C’è qualcosa di surreale nelle argomentazioni dietrologiche e liquidatorie con cui diversi giornali e molti politici di sinistra hanno accolto l’annunciato avvio del confronto caro alla maggioranza di governo sulla riforma cosiddetta presidenziale. Tre gli argomenti usati.
Il primo: il presidenzialismo è un diversivo per coprire le difficoltà del governo e le spaccature della maggioranza. Argomento singolare, dal momento che, comunque lo si voglia giudicare, il presidenzialismo fa parte del programma di governo del centrodestra ed è stato l’elemento centrale del discorso di Giorgia Meloni per la fiducia al Parlamento.
Secondo argomento: il presidenzialismo non ci piace perché siamo contrari all’uomo solo al comando. Tesi legittima, che però necessiterebbe di un’autocritica o quantomeno di una spiegazione, dal momento che il testo base della riforma costituzionale partorito nel ‘97 dalla Bicamerale guidata da Massimo D’Alema prevedeva proprio l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Si può cambiare idea (anche chi scrive l’ha cambiata) ma se si vuole evitare il sospetto di strumentalità sarebbe bene spiegare le ragioni di tale cambiamento (persino chi scrive si è sentito in dovere di farlo).
Il terzo argomento ha un che di paradossale: volete approvare la riforma a colpi di maggioranza. Tutto lascia invece credere il contrario. Il percorso parlamentare, il confronto con le opposizioni e l’ambiguità delle posizioni di partenza sul metodo e sul merito della riforma ci dicono in maniera piuttosto esplicita che la maggioranza desidera ottenere il più ampio consenso possibile in Parlamento. Non foss’altro perché in caso contrario la riforma rischierebbe seriamente di essere bocciata dagli italiani al referendum confermativo come accadde nel 2006 alla riforma costituzionale di Berlusconi e nel 2016 alla riforma costituzionale di Renzi.
Il fatto che non si escluda di passare dall’elezione diretta del Capo dello Stato a quella del premier è di per sé un chiaro indizio di disponibilità alla mediazione. Ma è evidente che, come ha detto il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, se la mediazione non dovesse riuscire la riforma verrà approvata con i voti di chi ci sta. L’affermazione di Tajani è stata accolta con sdegno dalla sinistra. La stessa sinistra che nel 2001 approvò la delicatissima riforma del Titolo V della Costituzione con un pugno di voti di maggioranza negli ultimi giorni di legislatura.