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Economia a pezzi, disordini sociali. La crisi in Pakistan e gli impatti globali

Mentre il Paese scivola nel caos, la Cina ha interessi e standing per poter cercare una soluzione alla crisi. Ma Pechino vorrà farsi coinvolgere oppure è già troppo coinvolta?

Secondo alcune valutazioni che una società di consulenza internazionale ha fatto per i propri clienti, ci sono cinque nazioni dove da qui al futuro pensare a investimenti: India, Indonesia, Filippine, Vietnam, Bangladesh. Ce ne sarebbe una sesta, se solo però riuscirà a trovare una quadra nel disordine interno (politico, sociale, culturale, economico, securirario): il Pakistan.

L’arresto di Khan

Quanto accade in questi giorni non fa che avvalorare questa valutazione, rendendo però apparentemente più lontana quella condizione affinché si realizzi. Martedì la polizia paramilitare pakistana ha fatto irruzione in un tribunale per arrestare l’ex primo ministro Imran Khan, un uomo che molti nell’establishment militare desideravano vedere dietro le sbarre da tempo. A distanza di meno di 72 ore la Corte Suprema ha stabilito che l’arresto era illegale non di per sé, ma per i modi con cui è stato condotto, ed è stato momentaneamente liberato.

L’arresto di Khan era stato spettacolarizzato attraverso un’irruzione da film, con poliziotti in tenuta tattica da combattimento che hanno trascinato l’ex stella del cricket fuori dal tribunale per sbatterlo dentro uno dei veicoli in attesa fuori dell’edificio. In tutto il Paese sono scoppiate manifestazioni spesso sfociate in violenza, con almeno 2.500 persone arrestate e 11 uccise — anche perché è stato dispiegato l’esercito per controllare la situazione e dunque si era scelto di non andare troppo per il sottile. La chiusura delle scuole e il blocco di Internet da dispositivi mobili sono altri due fattori che testimoniano come la risposta sia stata severa, autoritaria.

Il rilascio e lo scontro con i militari

Il rilascio di Khan è un’altra svolta inaspettata nella resa dei conti tra il politico più popolare del Pakistan e la sua istituzione più potente, le forze armate. I disordini che sono esplosi nel Paese sono conseguenza di un quadro istituzionale fragile, con il potere frammentato tra fazioni e gruppi etnico-politici.

Khan è stato arrestato poco dopo aver accusato un alto ufficiale dei servizi segreti di aver avuto un ruolo in un apparente tentativo di assassinio contro di lui nello scorso novembre (fu ferito da un proiettile e già in quell’occasione c’erano stati disordini mossi dai suoi supporter, che accusavano lo Stato di voler eliminare il loro leader). L’esercito ha prontamente denunciato l’accusa come “inventata e malevola”.

In precedenza Khan aveva accusato alti ufficiali militari di aver cospirato per spodestarlo, sempre l’anno scorso. Contro di lui invece pendono accuse di corruzione e istigazione al terrorismo, e se verrà condannato, potrebbe essere escluso dalle elezioni previste per ottobre. La polizia aveva già tentato di arrestarlo in più occasioni a marzo, ma i sostenitori di Khan hanno circondato la sua casa e li hanno costretti a tornare indietro.

In sostanza, i vertici dell’esercito sembra abbiano deciso che non vogliono che Khan possa aver possibilità di tornare al potere. L’arresto era il rimedio primitivo per toglierlo di mezzo, ma all’interno del Paese ci sono interessi che cercano di mantenerlo in piedi insieme ai suoi sostenitori. Eletto nel 2018 con l’assenso mai esplicitato dell’esercito — che in quel momento voleva evitare di contrastare apertamente il consenso popolare — Khan può rappresentare una forma di equilibrio nei confronti anche della direzione internazionale di Islamabad.

Dove va il Pakistan?

Un Paese dotato di arma nucleare e in predicato per essere tra quelli che potrebbero guidare in futuro la crescita economica internazionale, si trova attualmente a vivere situazioni di scontro civile regolato da milizie politiche e dal ruolo dei militari. Tutto mentre alcuni documenti trapelati dimostrano l’insofferenza di Islamabad riguardo al suo ambiguo posizionamento nel mondo. Per anni il Pakistan è stato un alleato americano nella lotta al terrorismo e nella partita geostrategica centro-asiatica, ma sempre con atteggiamento poco limpido (si parla per esempio di una vicinanza sospetta tra alcuni ambienti dell’intelligence e altri di al Qaeda). Ora escono indiscrezioni sulla volontà del governo di allinearsi maggiormente alla Cina — che considera il Corridoio pakistano come segmento essenziale della Belt & Road Initiative, perché affaccio sull’Oceano Indiano. E nel frattempo su Islamabad pesano le pressioni indiane, con le pratiche di confine mai risolte (nonostante una guerra) e l’aumento della assertività di Nuova Delhi sui dossier internazionali (e nelle partnership).

Due giorni dopo l’arresto di Khan e le diffuse proteste in tutto il Pakistan, manca una voce tra le preoccupazioni internazionali: l’alleato “di sempre”, così si definisce la Cina, non ha commentato la crisi politica in corso. Il silenzio di Pechino è indicativo del suo approccio più ampio al Pakistan, approccio che è arrivato a ruotare intorno a un appoggio pratico all’establishment militare. Solo due settimane prima dell’arresto di Khan, Pechino ospitava il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito pakistano, Syed Asim Munir, per un incontro di altissimo livello con Wang Yi, il capo della diplomazia del Partito/Stato. A conferma del valore del Pakistan nel pensiero cinese e dell’approccio di Pechino, val la pena ricordare che Munir è probabilmente l’unico capo militare straniero che incontra abitualmente gli alti diplomatici cinesi oltre ai vertici militari. Solo tre giorni prima dell’arresto, il capo dell’esercito aveva avuto colloqui con il ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, in visita in Pakistan per colloqui trilaterali con l’Afghanistan.

Cosa c’entra la Cina?

Wang ha descritto l’esercito come “un convinto difensore della sicurezza e della stabilità nazionale del Pakistan, e anche un convinto difensore dell’amicizia ‘ferrea’ tra Cina e Pakistan”. Dall’altra parte, la star del cricket trasformatasi in politico populista, ha da tempo iniziato a tenere massicci comizi per sollecitare elezioni anticipate, denunciando il suo successore, Shehbaz Sharif, e gli alti ufficiali militari che lo guiderebbero nel suo incarico.

I commenti di Wang indicano l’opinione diffusa nella comunità strategica cinese secondo cui Pechino può fare maggiore affidamento sull’esercito, piuttosto che sui governi civili eletti, per garantire la stabilità. La Cina non commenta i fatti in corso secondo il principio della non interferenza, ma soprattutto per convenienza. Pechino è consapevole che riuscirebbe comunque a lavorare con qualsiasi lato politico al potere (compreso Khan), ma sa che ha bisogno delle forze armate del Paese per tutelare la sua principale priorità: la protezione dei cinesi in Pakistan. Si tratta di un problema sottolineato regolarmente dai massimi funzionari, anche dal leader Xi Jinping, sulla scia dei continui attacchi contro di loro. La Cina, maturata potenza, diventa oggetto di azioni di gruppi armati nazionalisti — tra cui quelli collegati alle sigle del terrorismo jihadista — perché viene percepita come un invasore e sfruttatore. Tematiche utili per instradare la propaganda utile al proselitismo dei gruppi.

Mentre era in Pakistan nei giorni scorsi, Qin è stato chiaro sul valore della stabilità come “prerequisito per lo sviluppo e la sicurezza, il fondamento della forza e della prosperità”. Ha aggiunto di “sperare sinceramente che tutte le forze politiche in Pakistan costruiscano un consenso, mantengano la stabilità, rispondano più efficacemente alle sfide interne ed esterne e uniscano gli sforzi per far crescere l’economia e migliorare il sostentamento della popolazione”. Il messaggio è diretto ai tutori di quella sicurezza congiunta alla sviluppo su cui si basa la stabilità: i militari. E non ai politici.

Cosa aspettarsi adesso?

Il punto però è il livello di rischi che la ritorsione violenta contro Khan può innescare. Lo scontro politico si muoverebbe all’interno di un Paese in condizioni economiche molto difficili e l’innescarsi di una stagione violenta potrebbe complicare percorsi avviati per il recupero, per altro facilitando le attività dei gruppi armati di varia natura. Non sarebbe un bene per i pakistani, ma nemmeno per Pechino. Khan oggi si ripresenta di nuovo in tribunale, mentre diversi membri di spicco del suo partito e migliaia di suoi sostenitori sono ancora dietro le sbarre. È improbabile che la resa dei conti finisca qui. Ma si pare un grande interrogativo sulle prossime elezioni: il partito di Khan, Movimento per la Giustizia del Pakistan, parteciperà? E soprattutto: le elezioni ci saranno?

La crisi si inserisce in un contesto in cui il costo della vita è in aumento costante e Moody’s ha lanciato l’allarme secondo cui il Paese potrebbe andare in default entro giugno se non si riuscirà a concludere un accordo di salvataggio con il Fondo monetario internazionale. Accordo difficilmente raggiungibile da un governo che arresta le sue opposizioni. Salvataggio di cui per prima la Cina ha interesse nell’ottenere un buon fine per evitare il collasso di uno stato in cui ha piazzato investimenti strategici. Per Xi che cerca di sottolineare un ruolo della Cina come portatore di stabilità globale, il dossier pakistano potrebbe essere una buona occasione di lavoro, ma Pechino potrebbe essere troppo esposta per farsi coinvolgere in una diatriba (che per altro rischierebbe di passare per interferenza).

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