Sia le critiche arrivate dalla ministra del lavoro spagnola che i ripetuti attacchi francesi al governo guidato da Giorgia Meloni sono state in entrambi i casi controproducenti. Proprio ora che a livello europeo ripartirà la discussione sulla Riforma del Patto di stabilità e crescita e i Paesi frugali hanno il coltello dalla parte del manico. L’analisi di Gianfranco Polillo
C’è più di un pizzico di autolesionismo nelle polemiche di Spagna e Francia nei confronti dell’Italia. Più decifrabile l’attacco della vice premier spagnola, Yolanda Díaz, nonché ministra del Lavoro nel governo socialista di Pedro Sánchez. “Con il decreto sul lavoro l’esecutivo di Giorgia Meloni ha mostrato di voler governare contro lavoratori e lavoratrici”: questo il commento all’ultimo decreto legge, varato in Italia, il 1 maggio. Che già tante polemiche, da parte dell’opposizione, aveva suscitato. Uniti ai plausi di Gad Lerner verso la reprimenda spagnola.
In Spagna il tasso di disoccupazione, specie giovanile, è tra i più alti a livello europeo. Gli ultimi dati parlano di una cifra complessiva che supera il 13 per cento. Tre anni fa era addirittura superiore al 15 per cento. A marzo, per fortuna, si è verificato un calo pari a poco più di 45 mila unità. Ancora troppo poco. In Italia, invece, il tasso di disoccupazione è pari a poco più della metà (7,8 per cento). In un anno il numero dei disoccupati è sceso di oltre 290 mila unità. Se questo significa voler “governare contro lavoratori e lavoratrici”, solo allora, Yolanda Diaz, oltre ad un pizzico d’invidia, avrebbe ragione da vendere.
Ridimensionate le polemiche, resta solo da capire. Operazione non difficile. Yolanda è la coordinatrice nazionale di Esquerda Unida. Una coalizione composita, il cui perno è rappresentato dal vecchio partito comunista spagnolo. Forte in Galizia, il suo peso elettorale, a livello nazionale, è modesto. E comunque competitor del Psoe: il partito socialista di Pedro Sanchez. Evidenti, quindi, gli obiettivi della polemica. Attaccare la destra italiana, per dimostrare l’eccessiva prudenza diplomatica del Presidente spagnolo di cui agognerebbe prendere il posto.
Il caso francese è ben più oscuro. Se non altro alla luce del solenne “Trattato per una cooperazione bilaterale rafforzata”, firmato poco più di un anno fa tra i due presidenti: Emmanuel Macron e Sergio Mattarella. Sorprendente, quindi, dover constatare le intemperanze di una Repubblica semi presidenziale, come quella francese dove il Capo dello Stato è più esposto; rispetto a quella parlamentare italiana. In cui Esecutivo e Presidenza della Repubblica sono distinti ed, a volte, distanti.
Ancor di più se si considera la figura di colui che ha lanciato l’ultimo sasso. Stéphane Séjourné, è il capo del partito di Emmanuel Macron, Renaissance, e del gruppo centrista Renew al Parlamento europeo. La persona quindi meno titolata nel prendere posizione, al fine di non esporre proprio Monsieur le President de la Republique. Gaffe evidente: che pareggia il conto con il caso Di Maio. Con i suoi incontri parigini con i gilè gialli, quando era il numero uno del governo gialloverde.
Le spiegazioni più probabili del nuovo incidente (dopo quello con ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin) hanno un taglio politicista. In vista delle prossime elezioni politiche si teme che i Conservatori possano unirsi ai Popolari, riducendo lo spazio per le formazioni centriste, come quelle che fanno capo a Macron. Altro dato del contendere la posizione giudicata fin troppo filo americana da parte di Giorgia Meloni. Quando Macron sembra muoversi di più lungo il crinale di una linea post-gollista: insofferente alle altrui egemonie. Tutte cose comprensibili, se non fossero eccessivamente malate di presbiopia.
Nel più breve periodo, infatti, i problemi sono altri. La Francia sta vivendo una crisi sociale senza precedenti. Basta vedere le manifestazioni di piazza, spesso violente e devastanti, che hanno sconvolto quasi tutte le principali città del Paese. Poco comprensibili i motivi di quelle rivolte: una riforma pensionistica che introduce modesti ritocchi in un sistema più che generoso per i suoi assistiti. Segno evidente di un malessere ben più profondo, che non tollera nemmeno il più piccolo sacrificio aggiuntivo.
Le ragioni di tutto ciò vanno ricercate in un sistema economico che, specie negli ultimi anni, si è quasi seduto. Il tasso di crescita dell’intera economia è fortemente rallentato, ma nonostante questa deriva, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è rimasto negativo. In pratica è dal 2007 che la Francia, salvo le eccezioni del 2019 e del 2021, risulta essere tributaria dall’estero per compensare i suoi squilibri valutari. Segno evidente di un Paese che vive al di sopra delle proprie possibilità. E che quindi non ha margini per continuare come nel passato.
La verità è che Parigi non è riuscita fare ciò che stato fatto a Roma e in parte a Madrid. Entrambi questi due ultimi Paesi avevano, fino al 2011, un forte squilibrio dei conti con l’estero. Ma da allora, grazie anche ad una cura da cavallo all’insegna dell’austerity, la situazione si è ribaltata, ed entrambi presentano, ora, attivi più che consistenti. La Spagna è penalizzata ancora da un saldo negativo nella situazione patrimoniale netta con l’estero pari al 60,5 per cento del Pil (fine 2022), mentre la Francia è posizionata meglio, con un saldo negativo pari solo al 26,2 per cento. Ma, in entrambi i casi, niente a che vedere con la posizione italiana che, invece, è positiva. Nessun debito, ma crediti nei confronti dell’estero per un importo pari al 3,9 per cento del Pil.
Difficile dire quanto queste differenze abbiano pesato nelle polemiche inutilmente imbastite contro il Bel Paese: da sempre etichettato come il grande malato d’Europa. Comunque sia, si sono dimostrate controproducenti. Nei prossimi mesi si entrerà nel vivo della discussione sulla Riforma del Patto di stabilità e crescita. Un terreno dove i cosiddetti “Paesi frugali” detengono il coltello dalla parte del manico. Non tanto perché maggioranza in Europa. Ma, perché ne sono i principali finanziatori, grazie ai loro forti attivi della bilancia dei pagamenti. In media la Germania ha finora finanziato circa il 70 per cento dei debiti contratti dagli altri Paesi dell’Eurozona, l’Olanda il 20 per cento.
Il rimanente 10 per cento si suddivide tra Austria, Italia, Belgio, Lussemburgo e Finlandia. Rompere quindi il fronte sud dell’Europa rischia di non mostrarsi un buono affare. Specie da parte di chi, come la Francia, ha presentato un indebitamento netto superiore al 3 per cento (unica eccezione il 2018) fin dal 2008. Ponendosi di conseguenza fuori dai quei paramenti che il Nuovo Patto vorrebbe rendere ancora più stringenti. E che solo uno schieramento più ampio potrebbe scongiurare.