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A cinque anni dall’uscita di Trump dal Jcpoa. Conversazione con Redaelli

Il docente di Storia e istituzioni dell’Asia della Cattolica analizza come è cambiato l’Iran, quali equilibri persistono nella regione e quante speranze ci sono per una ricomposizione del vecchio accordo. La Repubblica islamica dall’uscita unilaterale trumpiana è una realtà diversa, inserita in un contesto diverso

L’8 maggio 2018 l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciava la decisione unilaterale di uscire dal Jcpoa, acronimo di Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo per il congelamento del programma nucleare dell’Iran ottenuto dopo anni di faticose trattative nel 2015 – grazie al lavoro dell’amministrazione Obama e dell’Unione europea – con il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Trump annunciava simultaneamente che tutta la panoplia sanzionatoria contro la Repubblica islamica sarebbe stata reintrodotta dopo che il Jcpoa aveva sospeso le misure restrittive. Da lì a pochi mesi (a novembre) l’Iran tornava isolato, perché gli Usa reintroducevano anche le cosiddette sanzioni secondarie, ossia quelle che colpiscono non solo direttamente le attività americane con l’Iran ma anche entità terze che sono in qualche modo in affari con gli iraniani quando intendono fare affari negli Usa.

A distanza di cinque anni, il Jcpoa è praticamente naufragato, anche per colpa delle sanzioni americane, ma l’Iran ha dimostrato capacità di resilienza seppure navigando in mezzo a evidenti difficoltà economiche. Nel frattempo nel Paese il pragmatico-riformista Hassan Rouhani ha lasciato la presidenza, sostituito dal conservatore Ebrahim Raisi, e i riflettori del mondo sono stati attirati nei mesi scorsi dalla brutale repressione delle proteste contro la leadership.

“In Iran è cambiato molto: la vittoria di Raisi ha eliminato ogni forma di dissenso e diversità, per quanto moderata, all’interno del sistema di potere”, spiega Riccardo Redaelli, professore ordinario di Storia e istituzioni dell’Asia presso la facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. “La Repubblica islamica – continua Redaelli in una conversazione con Formiche.net – aveva sempre garantito un certo fazionalismo e una certa diversità di vedute, e il Presidente della Repubblica ha rappresentato a volte le tendenze politiche più aperte e vicine alla popolazione contro i centri di potere non elettivi (come la Guida Suprema, i Pasdaran, il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, ndr)”.

Raisi è invece un presidente allineato ai settori più conservatori e la sua elezione ha obliterato ogni forma di dissenso dal sistema di potere, che ha portato alla radicalizzazione del dissenso stesso, spostando fuori dal perimetro istituzionale le visioni diverse. “Raisi è un presidente inefficace nell’economia e ottusamente dogmatico nell’imposizione delle regole quotidiane che soprattutto i giovani e le donne non sopportano più (come il velo, il divieto della musica, il controllo sulle libertà individuali)”, aggiunge il docente.

Le insofferenze verso le contrazioni sulle libertà individuali, unite al quadro economico iper-critico, hanno prodotto una miscela esplosiva che poi è dilagata nelle proteste più recenti. Davanti a queste, però, il regime ha retto, perché non esiste un’opposizione organizzata e strutturata, soprattutto radicalizzata come quella che nel 1979 portò alla rivoluzione combattente contro lo Shah.

Nel frattempo, tenuto botta alle proteste, la leadership ha avviato percorsi internazionali di primissimo rilievo. Dal Jcpoa targato Usa-Ue si è passati all’avvio della normalizzazione con l’Arabia Saudita, con un’intesa firmata a Pechino: forse non è cambiato solo l’Iran, ma anche la regione, con il Golfo che si è convinto nella possibilità di avere un ruolo, e più dialogante con la Repubblica islamica? Forse davanti alle fragilità interne, l’Iran ha cercato altre sponde esterne?

“Noi occidentali ossessivamente pensiamo che tutto il mondo debba guardare solo a ciò che succede in Ucraina, ma non è così: regioni del mondo come il Medio Oriente vanno avanti e si muovono su linee che non necessariamente sono quelle europee e statunitensi”, risponde Redaelli. Diversi Paesi mediorientali hanno ormai acquisito la consapevolezza di poter giocare una partita tendenzialmente globale, hanno progetti e programmi di crescita e sviluppo, stanno strutturando un proprio standing internazionale. Per seguire queste ambizioni strategiche non accettano giochi a somma zero, intendono avere possibilità di dialogare con tutti.

“Gli Stati Uniti hanno perso leverage nella regione, l’Europa in realtà ce ne ha sempre avuto poco: la divisione attuale tra amici e nemici che non possono essere accettati ha aperto praterie a un attore globale come la Cina, che è molto più spregiudicato eticamente, ma anche molto più accorto nel fare affari e costruire relazioni senza interferire troppo politicamente o imporre valori e azioni. E questo ha avvicinato i regimi mediorientali, anche quelli più vicini all’Occidente, a Pechino. Altrettanto, un Iran indebolito, isolato, piegato da una crisi economica che impoverisce la popolazione e smuove le proteste, ha dovuto accettare i consigli di Pechino, che fa affari sia a Teheran che nel Golfo e intende rafforzare il proprio ruolo”.

Il riavvio delle relazioni Iran-Arabia Saudita è stato un successo politico-diplomatico per la Cina, ma tra i due poli geopolitici della regione rimangono ancora diversi dossier aperti, non è così? “Teheran e Riad sono arci-nemici ontologici e la divisione religiosa è sempre stata in secondo piano rispetto ai grandi file geopolitici. Per questo i motivi di opposizione rimangono, e per superarli serviranno dei compromessi, anche se finora non sono mai stati troppo bravi a farli”.

Perché? “Perché i sauditi per esempio hanno sempre cercato di rompere il cosiddetto asse sciita, rivoluzionando l’assetto del Medio Oriente e del Levante che l’intervento americano aveva creato a vantaggio dell’Iran, ma senza riuscirsi e perdendo tutte le partite, dall’Iraq al Libano allo Yemen. Gli iraniani da parte loro hanno avuto quel grande vantaggio geopolitico in Iraq, Siria, Libano, Yemen, ma tutta questa proiezione ha avuto anche costi enormi sia economici che diplomatici provocando un’iperestensione che Teheran fatica sempre più a gestire”, risponde Redaelli.

Per il professore, davanti a tutto questo potrebbe realmente esserci la volontà di affrontare in modo meno aspro i grandi dossier della regione. Ma uno di questi grandi dossier è anche il Jcpoa, o qualsiasi cosa possa comportare il controllo del programma atomico iraniano. Seguendo le evoluzioni dell’ultimo anno, appare abbastanza chiaro che le speranze per l’accordo si sono più o meno esaurite: e dunque, cosa aspettarci? “Se c’è una caratteristica delle trattative sul nucleare iraniano – risponde il docente – è che molto spesso si è andati vicinissimi a un grande accordo, anche ben prima di quello del 2015, per esempio nel 2005 e nel 2009, ma quello che è tecnicamente mancato è la fiducia reciproca. E ora questa fiducia non c’è, anche perché è stato unilateralmente distrutto. Ci si è andati vicinissimi lo scorso anno, ma le forze che sono sempre pronte a sabotarlo sono riuscite a boicottarlo”.

Quali forze? “C’è l’ostilità dei Paesi arabi del Golfo, c’è quella della destra israeliana che ha fatto le sue fortune esagerando la minaccia nucleare iraniana, c’è la destra americana, ci sono gli elementi peggiori del sistema iraniano come i Pasdaran che non vogliono l’accordo perché significherebbe la normalizzazione del Paese. I Pasdaran hanno bisogno dell’eccezionalità dell’Iran, hanno bisogno di dipingere la Repubblica islamica come fosse sempre sotto una minaccia, in modo così da giustificare il proprio strapotere su una società che non li sopporta più”.

Per Redaelli non ci sono poche possibilità per la ricostruzione di un accordo, con il problema che nel frattempo gli iraniani sono effettivamente andati avanti nel programma nucleare. “Il ritiro unilaterale americano dal Jcpoa ha rotto la parola data, e offerto il pretesto alla parte peggiore del regime iraniano per radicalizzarsi ulteriormente e proseguire nel programma nucleare. Finora – commenta – si sono dimostrati più ragionevoli nei fatti che a parole, si sono tenuti lontani dalla soglia critica, ma l’incertezza rimane e soprattutto aumenta la pressione per un’azione unilaterale israeliana”.

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