I Paesi del Gruppo dei Sette e l’Unione europea studiano un divieto di riapertura dei canali delle esportazioni che Putin ha tagliato per scatenare la crisi energetica europea. Un sistema per colpire la macchina bellica russa ed evitare “ripensamenti”, ma anche preservare un canale di negoziazione strategico. L’Italia, intanto, non abbassi la guardia sul gas
Il dossier energia si accompagna a quello russo sul tavolo del Gruppo dei Sette. Al summit di Hiroshima di fine settimana i leader G7 annunceranno misure per mantenere alta la pressione sul Cremlino e indebolire ulteriormente la macchina bellica di Vladimir Putin. La quale, com’è noto, si appoggia su un’economia basata in larga parte sull’esportazione degli idrocarburi. E dopo aver imposto l’embargo sul petrolio russo e derivati, i sette Paesi (assieme all’Unione europea) vogliono evitare che le capitali occidentali tornino a foraggiare Mosca importando gas naturale.
Come spiega il Financial Times, che cita addetti ai lavori, i Paesi G7 e l’Ue vieteranno le importazioni di gas russo attraverso i gasdotti su cui Putin ha tagliato le forniture (come elemento essenziale della sua guerra ibrida contro l’Europa, per provocare una crisi energetica e indebolire il fronte a sostegno dell’Ucraina). La bozza delle conclusioni G7 prevede un divieto di riaprire queste rotte del gas almeno fino a quando “non ci sarà una risoluzione del conflitto”. Si intende dunque la prosecuzione del blocco dei sistemi Yamal e Nord Stream (o perlomeno, per quest’ultimo, l’unica pipeline rimasta integra delle quattro).
Sarebbe la prima volta che le potenze occidentali colpiscono il commercio russo via gasdotto dall’inizio dell’invasione su larga scala. Secondo le fonti di FT, la mossa serve anche per “assicurarsi che i partner non cambino idea in un futuro ipotetico”. Per Carlo Bagnasco, amministratore delegato di operatori di rilievo nella commercializzazione e importazione di gas ed energia, il riferimento alla Germania è evidente – e tutto questo va letto nell’ottica del soft power statunitense con gli alleati.
“Sappiamo che la Germania è stato il Paese più accomodante verso Mosca, quello che considerava la Russia un partner strategico al pari della Francia. Il simbolo indiscusso di questa entente è stata l’autorizzazione di Nord Stream 1 e 2”, racconta l’esperto a Formiche.net. In quest’ottica, il divieto G7 sarebbe un ulteriore segnale del fatto che Berlino debba mantenere la barra dritta riguardo al sostegno all’Ucraina. E darebbe rassicurazioni agli investitori che vogliono creare canali di fornitura alternativa.
Tuttavia, il piano del G7 non è pensato per bruciare completamente i ponti con la Russia, dal momento che non sembra interessare quello che resta il principale canale russo verso l’Europa: il cosiddetto sistema Brotherhood, che alimenta via Ucraina sia i Paesi più vicini a Mosca – Ungheria e Serbia –, ma anche, passando dall’Austria (a sua volta interconnessa con la Germania), il nostro Paese. Oggi è utilizzato in maniera marginale, spiega Bagnasco, il che lascia ampio spazio per aumentare le forniture: “questa è una piccola porta aperta al dialogo e a eventuali incrementi di volume che dovessero coprire necessità improvvise e non procrastinabili dell’economia russa”.
Insomma, Brotherhood rimane un canale attraverso cui si può immaginare un negoziato col Cremlino: utilizzare questa infrastruttura genererebbe peraltro proventi da tariffe di trasporto per l’Ucraina (un “gesto di buona volontà” all’occorrenza?). E le alternative scarseggiano. Storicamente, le entrate da idrocarburi “hanno permesso a Putin di consolidare la propria crescita economica interna, ma anche comprarsi la fedeltà del proprio sistema di potere e delle diverse milizie private”, ricorda Bagnasco. Oggi, “il minor volume venduto ai clienti orientali (Cina e India in primis) è fortemente scontato rispetto ai prezzi di mercato, quindi certamente non sufficiente a garantire i proventi necessari a evitare la recessione interna”.
Il quadro è ancora più cupo per la Russia se si considera che diversi Paesi europei hanno interrotto o intendono interrompere completamente le forniture dalla Russia. A gennaio l’ad di Eni Claudio Descalzi ha confermato che l’orizzonte per l’Italia è il 2025. Secondo Bagnasco, l’obiettivo è ambizioso ma raggiungibile. Il che non significa poter abbassare la guardia, avverte. “Il clima ci ha aiutato moltissimo lo scorso inverno, più di quanto non si percepisca, e i cittadini hanno ridotto i consumi: non dobbiamo sperperare il capitale accumulato”. Anche perché serve per ammortizzare eventuali emergenze.
Tagliare le importazioni russe, che un tempo rappresentavano il 40% del gas importato dall’Italia, significa maggiore pressione sugli altri canali di approvvigionamento: “basta una qualsiasi inconveniente su un’altra infrastruttura e il sistema italiano andrebbe in crisi immediatamente. E questo vale anche per l’intero sistema Ue”. Oltre a continuare lungo la strada delle riduzioni dei consumi, spiega l’esperto, la soluzione passa anche dall’assicurare maggior flessibilità al sistema italiano. Che poi è quello che l’Italia sta facendo, potenziando le infrastrutture esistenti (come con il raddoppio del Tap) e installando due nuovi terminali di rigassificazione: a Piombino, in funzione proprio da questi giorni, e a Ravenna, previsto per l’anno prossimo.
“Il rovescio della medaglia è che il prezzo del gnl è intrinsecamente volatile: per questo, al netto di eventi eccezionali, mi aspetto un inverno più sereno dei precedenti ma caratterizzato da una forte volatilità”. Guardando più in là, invece, la transizione energetica, l’evoluzione tecnologica, nuovi approvvigionamenti, consumi più contenuti e il ricorso alle rinnovabili faranno sbiadire l’ipotesi di un ricorso al gas di Putin. A meno che la Russia non torni nuovamente accettabile per i clienti occidentali.