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All’Italia serve una strategia nell’intervento pubblico. L’analisi di Zecchini

Il Pnrr ha avuto il merito di mettere in luce molti dei mali di cui soffrono le nostre istituzioni di governo e di rendere il Paese consapevole che è urgente definire una strategia di sistema e costituire le basi per attuarla al meglio. Occorre fare tesoro degli insegnamenti di questa esperienza per non trovarsi impreparati per il futuro

In un Paese avvezzo a dibattere soprattutto di disavanzi, sovvenzioni, pensioni, tassi d’interesse e debito pubblico, ben pochi tanto al governo quanto nei media e tra gli accademici parlano di politica o strategia “industriale”. Se vi accennano, mostrano un interesse frammentario, focalizzato su singole misure e limitato al Pnrr, digitalizzazione ed economia verde senza una visione né di insieme, né delle condizioni da realizzare a monte e a valle per la sua migliore realizzazione. Lo Stato è chiamato nondimeno a intervenire su singoli punti di crisi o vulnerabilità economica, come nell’approvvigionamento di energia, in assenza di una chiaro disegno di sicurezza economica e di sviluppo nel medio-lungo periodo. In altri termini, non si ha una visione di politica industriale chiara né negli obiettivi, né negli strumenti, ovvero una politica della “offerta”, ma la si fa ugualmente.

In questo decennio la si fa con più intensità che negli anni passati in funzione di esigenze di sicurezza geopolitica in un apparente contrasto tra convenienze delle imprese nel mercato e priorità nazionali. Lo si vede nell’adozione di sanzioni alla Russia, che colpiscono le importazioni, particolarmente di petrolio e gas naturale: a più di un anno dall’inizio delle sanzioni si continua a importarli nel silenzio delle autorità, benché si sia realizzata una significativa diversificazioni delle fonti, sostenendo costi più elevati. La vulnerabilità del Paese, tuttavia, rimane perché alcuni dei paesi dai quali si acquista in maggior quantità sono retti da regimi autoritari solo in apparenza stabili.

Che sia opportuno che in questi frangenti si faccia sentire la mano dello Stato nel mondo produttivo non è un’esigenza esclusiva dell’Italia, in quanto anche gli Usa si sono piegati a questa realtà dopo anni di rifiuto d’intervenire, proclamato apertamente nell’assunto che basta il privato a provvedere. Con una inversione di tendenza, da ultimo si sono impegnati in una strategia di politica industriale, quali sono l’Inflation Reduction Act e i provvedimenti collaterali come il Chips Act., per convogliare investitori e capitali verso determinati settori industriali. Il risultato è stato, tra l’altro, che l’Ue e i suoi membri hanno dovuto procedere nella stessa direzione, per non trovarsi spiazzati dalla fuga di grandi imprese e capitali verso la produzione negli Usa.

Per l’Italia il compito è reso più arduo dalle remore strutturali che da lungo tempo frenano il suo sviluppo economico. Queste sono apparse particolarmente evidenti e rilevanti in tutta la loro gamma in occasione della crisi energetica e nel disegno ed attuazione del Pnrr. All’origine si possono individuare, tra gli altri, due fattori: l’assetto istituzionale dei poteri decisionali e la scarsa preparazione delle strutture pubbliche nel progettare interventi idonei ed innovativi, e farli portare ad esecuzione. A livello decisionale, le competenze sono parcellizzate sia al centro che nel rapporto con la periferia del potere.

Al centro, il coordinamento tra ministeri su materie che coinvolgono più dicasteri è carente perché episodico, ovvero si svolge in occasione della presentazione di singoli provvedimenti e non coinvolge organicamente le fasi a monte e a valle della decisione. A monte, non vi è una sede di elaborazione congiunta tra più ministeri ed enti pubblici di una politica che guardi avanti, allo sviluppo di medio periodo, e coinvolga più ministeri. Ad esempio, una politica industriale dovrebbe coinvolgere oltre alla Presidenza del consiglio, i dicasteri delle imprese, lavoro, commercio con l’estero, ricerca, istruzione, ambiente, finanze, giustizia, infrastrutture e riforme. Si ha piuttosto un modesto coordinamento in preparazione dell’approvazione di singole misure in Consiglio dei ministri o in Comitati interministeriali. Anche la fase a valle richiede la collaborazione tra ministeri per assicurare la tempestiva rimozione degli ostacoli e il raggiungimento degli obiettivi dell’intervento, piuttosto che l’adempimento formale di procedure.

La suddivisione di competenze con Regioni e Comuni comporta ritardi nell’azione, vuoti di programmazione, compromessi al ribasso, inaccettabile prevalenza di interessi locali su quello generale del Paese. Lo si è visto durante l’emergenza energetica con le difficoltà nella collocazione di un terminale di rigassificazione a Piombino, nel posizionamento di pale eoliche perfino in mare, e nell’incremento dei costi di infrastrutture a causa di opposizioni locali.

Sia nell’amministrazione centrale che in quella delle autorità sul territorio si riscontra una carenza di cultura della programmazione a medio termine e un deficit di capacità progettuale degli interventi. Si programma per il futuro e si migliorano le capacità gestionali quando si è sollecitati dalle politiche dell’Ue. Sovente, si va al seguito delle grandi imprese che propongono opere ed influiscono nella determinazione dei parametri per la loro assegnazione. Raramente si impiegano le commesse pubbliche per sollecitare nel mondo produttivo la ricerca in funzione di produzioni del tutto innovative.

Il Pnrr è stata l’occasione per sollecitare le autorità a definire un piano di politica industriale integrata nelle varie componenti a monte e a valle, comprendendo riforme amministrative e giurisdizionali, formazione delle competenze richieste per l’avanzamento tecnologico e digitale, infrastrutture di supporto, concorrenza sui mercati di sbocco e competitività, stimoli alla collaborazione tra imprese e i centri del sapere in funzione dell’innovazione. Ma il Pnrr non copre tutta l’area da trattare con la politica industriale perché non affronta l’insieme degli aspetti critici per una proiezione dell’economia verso un nuovo modello di crescita sostenuta. Ne è prova la decisione in corso d’opera di reindirizzare parte delle risorse verso la sicurezza energetica col programma RePower e verso le nuove filiere di approvvigionamento, di cui si è parlato anche all’ultimo Vertice del G7. Un’altra prova sta nell’assenza di un piano nazionale dei trasporti da cui derivare la scelta degli investimenti in infrastrutture da far finanziare da Bruxelles. Si sono fatte scelte senza una base di dati sia sui flussi dei traffici attuali, sia sulla loro evoluzione futura, sia su quella desiderata per rispondere ai fabbisogni della nuova economia.

Le difficoltà di attuazione del Pnrr, d’altronde, testimoniano come il Paese sia impreparato a realizzare una strategia di sistema, coerente e in tempi ravvicinati, senza rimandare la soluzione dei nodi ad anni futuri. L’ultima relazione della Corte dei Conti ed altre analisi danno atto sia dei progressi compiuti, sia dei ritardi rispetto alla tabella di marcia. Mentre le grandi imprese, specialmente quelle a controllo pubblico riescono a progredire nell’attuazione delle grandi opere, tra i Comuni, particolarmente al Sud, si resta indietro nell’avvio di progetti d’importo relativamente minore. Ad esempio, un numero consistente di amministrazioni comunali non è riuscito a portare a termine i bandi per gli asili nido, misura diretta a incoraggiare le donne alla partecipazione al lavoro.

La frammentazione dei progetti tra i Comuni è notevole ed è stata programmata per rispondere all’esigenza di una vasta diffusione delle attività sul territorio, ma le rende ostaggio delle capacità progettuali e di gestione di piccole strutture territoriali che presentano carenze tecniche e gestionali, a parte la maggiore permeabilità a interessi di parte. Probabilmente, un risultato migliore si sarebbe potuto ottenere confidando sull’affidamento delle opere a un minor numero di imprese distribuite su tutto il territorio, che potessero avvalersi della collaborazione delle autorità locali per portarle a termine.

Un segnale sulla maggior capacità gestionale delle imprese rispetto a quella di un certo numero di Comuni si può trarre dalla constatazione che gli interventi che hanno sorpassato i traguardi assegnati sono quelli dei programmi per l’Ecobonus e per la Transizione 4.0, in cui le imprese hanno svolto un ruolo attivo di proposta ed esecuzione. Le remore delle molte autorizzazioni necessarie a livello territoriale hanno, invece, inciso sui tempi dei progetti infrastrutturali ed energetici. Analoga considerazione vale più in generale nel campo dell’energia e delle materie strategiche per la nuova economia. Lo sfruttamento delle risorse energetiche e minerali del Paese è ostacolato o ritardato dalle opposizioni sul territorio, senza che correttivi vengano approntati in virtù della priorità dell’interesse nazionale.

Nella strategia industriale un posto rilevante dovrebbe avere la soluzione delle maggiori crisi aziendali, per le quali sarebbe stato possibile cercare un collegamento con gli interventi del Pnrr. Le crisi nella siderurgia, metallurgia, automotive, elettronica ed elettrodomestici potrebbero trovare in qualche misura sbocchi nell’orientamento verso le opere da attuare per il Pnrr. Solo di recente, il ministero competente ha dato notizia dei “tavoli di crisi” aperti presso i suoi uffici, ma senza esprimere una narrativa di commento sugli ostacoli incontrati, né sugli orientamenti per la soluzione.

Indubbiamente, il Pnrr ha avuto il merito di mettere in luce molti dei mali di cui soffrono le nostre istituzioni di governo e di rendere il Paese consapevole che è urgente definire una strategia di sistema e costituire le basi per attuarla al meglio. Occorre fare tesoro degli insegnamenti di questa esperienza per non trovarsi impreparati per il futuro.



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