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Altro che tregua, il divieto a Micron è un nuovo siluro nei rapporti Cina-Usa

Il divieto imposto da Pechino sui prodotti realizzati dall’azienda americana di chip è l’ennesima dimostrazione di quanta fatica facciano le due parti a comprendersi, dopo un G7 infuocato. I legami sono ai minimi storici, ma nella tempesta ci sono dei segnali di schiarite, come dimostra il via vai di alti funzionari da una parte all’altra del Pacifico

Se è necessario identificare un sintomo della malattia che affligge i rapporti tra Cina e Stati Uniti, basti vedere alla voce semiconduttori. Ieri l’Amministrazione cinese per il cyberspazio ha deciso di vietare l’utilizzo di prodotti della statunitense Micron Technology. È la prima grande mossa di Pechino contro un’azienda di chip americana, motivata con i “rischi significativi per la sicurezza” che corre la sua “catena di fornitura delle infrastrutture informatiche critiche”. Segue l’altra mossa, quella a stelle e strisce, con cui Washington si era servita per stilare una serie di prodotti che non sarebbero più dovuti partire verso la terra del Dragone. Stessa decisione presero successivamente Paesi Bassi e Giappone. E, ancora, segue quanto detto proprio nella città nipponica di Hiroshima, luogo dell’ultimo G7, riassunto in un comunicato in cui la Cina veniva messa in guardia sulle sue attività militari nell’Asia-Pacifico.

Si tratta solo di eventi recenti ma, messi uno dietro l’altro, ben spiegano quanto siano tese le relazioni da una parte all’altra dell’Oceano. Il presidente americano Joe Biden ha affermato di aspettarsi quanto prima un incontro con l’omologo Xi Jinping, ma da Pechino frenano a un passo così significativo. C’è prima da mangiare giù il boccone amaro del vertice tra i sette grandi del mondo, da cui sono partite “calunnie” su cui il governo centrale non vuole soprassedere. Lo ha fatto ben intendere all’ambasciatore giapponese, al quale sono stati chiariti tutti i punti che non tornavano, così come al Regno Unito e, soprattutto, all’America.

A parole, ribadendo concetti ormai noti sull’ingerenza degli americani, ma anche nei fatti come dimostra la presa di posizione su Micron. Una conseguenza, o meglio una ritorsione, di quanto deciso da Washington a ottobre sulle restrizioni all’export tecnologico Usa e che potrebbe allontanare ancor di più le parti. “La leadership cinese dovrebbe capire che questa azione renderà impossibile stabilizzare le relazioni e il tentativo di uccidere Micron porterà ad azioni di disaccoppiamento molto più forti e di più ampia portata dall’amministrazione Biden e dal Congresso”, ha spiegato al Financial Times un funzionario americano.

Alla Casa Bianca c’è preoccupazione per gli effetti che avrà il divieto, ma di certo non si può dire che sia un qualcosa di inaspettato. Dietro la volontà di Pechino c’è la mancanza di fiducia. “Gli Stati Uniti che dicono di voler parlare con la parte cinese mentre cercano di soffocare la Cina con tutti i mezzi possibili” non è credibile, affermano dal ministero degli Esteri. A dirlo è stato il portavoce Mao Ning, che chiede un cambio di passo per ripristinare le relazioni. “Impongono sanzioni contro funzionari, istituzioni e aziende cinesi. Qual è la sincerità, il significato di un rapporto come questo? Washington deve revocare immediatamente le sanzioni, fare passi concreti per eliminare gli ostacoli e creare un’atmosfera e condizioni favorevoli per il dialogo e la comunicazione”, ha aggiunto.

La competizione si è ormai spostata su pochi, quanto cruciali, temi. Tra questi figurano sicuramente Taiwan e l’intera questione che interessa la regione del Pacifico, la guerra economica e quella tecnologica. Questioni di importanza strategica che o vengono risolte oppure si rischia davvero di arrivare a uno scontro diretto tra le due superpotenze.

Non tutto è però perduto. Washington sembra aver ascoltato quanto affermato dal rivale numero uno e, proprio ieri, ha annunciato di allentare le sanzioni contro il ministro della Difesa Li Shangfu, così da facilitare l’incontro con il capo del Pentagono Lloyd Austin che dovrebbe tenersi a giugno a Singapore. Questa settimana è invece atteso negli Stati Uniti il ministro del Commercio cinese, Wang Wentao, che terrà dei colloqui con l’omologa Gina Raimondo e la rappresentante del Commercio americana, Katherine Tai, quest’ultima in un forum dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) a Detroit.

Wang Wentao sarà il primo funzionario a visitare l’America dal 2020 e già questo rappresenta un buon segnale. Certo è che non basterà un solo faccia a faccia per allentare la tensione, ma diversi e proficui colloqui tra i funzionari di ciascuna parte. Come sottolineato da Bonnie Glaser, che si occupa di Cina presso il German Marshall Fund, Pechino sta scegliendo con attenzione quali controparti incontrare.

Dietro ogni passo, c’è un meticoloso ragionamento su come e dove direzionarlo. Per ora, sia la Cina che l’America rimangono ferme nelle loro posizioni e a difesa dei loro interessi. A parole, invece, si dicono aperte a un confronto più sano. Sicuramente vedersi e parlarsi può facilitare un ripristino delle relazioni, che non sono ancora del tutto sepolte.



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