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La capacità politica di Elly. Sì, ma dove? Il corsivo di Cangini

Difficile, ormai, leggere le (mancate) gesta della neosegretaria Pd senza indossare le lenti dell’altrovismo. Il mistero di Elly, ovvero la sua originalità, mal si concilia con l’adozione da parte della segretaria di due retoriche tipiche del Pd: la questione di genere e il mito del campo largo

Tirare somme politiche nazionali dai risultati di un turno parziale di elezioni locali è un’operazione prossima alla disonestà intellettuale. Ma in fondo ha cominciato lei. È stata Elly Schlein la prima, e l’ha fatto in coerenza con la narrazione “altrovista” che Formiche.net le attribuì più di un mese fa.

Elly c’è e non c’è. Non è mai dove il sestante politico la vorrebbe, non ha responsabilità dirette perché, come ha detto dopo la batosta elettorale, quando si composero le liste delle comunali lei era, appunto, altrove. E lì è rimasta. Così altrove da, come ha notato oggi Giuliano Ferrara sul Foglio, aver mancato persino di caratterizzare la propria leadership in occasione dell’alluvione che ha messo in ginocchio la “sua” Emilia-Romagna. “Prima di diventare profeta della leggerezza cromaticamente corretta – ha scritto Ferrara- Elly era vicepresidente dell’Emilia-Romagna. Si sarebbe dovuto sentire il suo peso di amministratrice, di conoscitrice dei luoghi del disastro, si sarebbe dovuta occupare dell’alluvione trasmettendo non valori ma questioni urgenti di funzionalità di un’economia dissestata, di redditi distrutti, di una circostanza di tremenda afflizione: non pervenuta”. E assieme a lei non è pervenuta la politica.

Difficile, ormai, leggere le (mancate) gesta della neosegretaria Pd senza indossare le lenti dell’altrovismo. Lo ha fatto anche ellekappa su Repubblica. Solita vignetta con due personaggi. Il primo dice: “Non si può dare la colpa a Schlein, è lì solo da un paio di mesi”. “Sì, ma lì dove?”, domanda il secondo. Mistero.

Ma il mistero di Elly, ovvero la sua originalità, mal si concilia con l’adozione da parte della segretaria di due retoriche tipiche del Pd: la questione di genere e il mito del campo largo. La prima è nota. Quando un segretario del Partito democratico vuole far fuori gli avversari interni, spesso lo fa al grido di “largo alle donne”. Capitò e Zingaretti, che, essendo sul punto di finire giubilato, reclamò un segretario al femminile. Se ne discusse per settimane, arrivò Enrico Letta. Il quale decapitò i presidenti renziani dei gruppi parlamentari di Camera e Senato col pretesto, appunto, di declinare al femminile le funzioni che ricoprivano. È esattamente ciò che Elly Schlein si accinge a fare con i capilista alle prossime europee. Dovranno essere donne, ha detto. Zingaretti, Gentiloni e gli altri maschietti dem hanno capito.

È un’ipocrisia, certo. Un modo per deresponsabilizzarsi al pari della retorica del campo largo. Retorica tipica di una fase in cui la politica ha ceduto il passo all’aritmetica. L’ipocrisia, in questo caso, induce a dire cose del tipo: abbiamo perso perché tizio o caio hanno rifiutato di allearsi con noi. Come se la capacità di stringere alleanze non fosse una qualità delle leadership. E come se le alleanze dipendessero dai capricci personali di questo o quel leader piuttosto che dalle identità dei singoli partiti. Una retorica vacua, ed evidentemente fallace se trasportata sul piano nazionale. Assunto che il fine delle elezioni non sia quello di vincere, bensì di governare, esiste davvero qualcuno convinto che in caso di vittoria alle scorse elezioni politiche il centrosinistra non sarebbe andato subito in crisi su un tema strategico e identitario come la guerra in Ucraina?

Non saranno, dunque, l’altrovismo, le questioni di genere o i campi larghi a consolidare Elly Schlein alla guida del Pd e a fare di lei la leader del centrosinistra. Sarà la sua capacità politica. Sì, ma dove?

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