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Il dramma paradigmatico del Sud Sudan spiegato da Civiltà Cattolica

Non solo la gravissima crisi, anche interna, del più giovane Stato del mondo, il Sud Sudan, diviso, ma anche una approfondita analisi religiosa e politica nell’intervista di padre Antonio Spadaro al monsignor Christian Carlassare, vescovo nel Sud Sudan, pubblicata nell’ultimo numero della rivista dei gesuiti. La riflessione di Riccardo Cristiano

L’intervista che il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, ha realizzato e pubblicato sul nuovo numero della rivista con monsignor Christian Carlassare, vescovo nel Sud Sudan, è un testo molto più importante di quanto si possa pensare, va ben al di là infatti dello specifico che affronta, la gravissima crisi anche interna del più giovane Stato del mondo, il Sud Sudan, diviso lungo linee di fedeltà claniche ai leader nazionali dopo che insieme hanno guidato la lotta per l’indipendenza dal nord, islamico. Molti ricorderanno il papa baciare i piedi dei due leader in conflitto, quando li ricevette in Vaticano. Sforzo senza successo di porre termine al conflitto di potere tra “signori della guerra”? Cristiani e animisti dopo la comune lotta di indipendenza hanno fallito? La questione va posta probabilmente in altri termini. Ma qual è la questione?

Se il mondo si capisce meglio dalle periferie che dal centro, il Sud Sudan spiegato da monsignor Christian Carlassare diviene un luogo perfetto per capire ciò che va accadendo oggi in tante parti del mondo, sebbene in forme non sempre uguali. È la questione dell’identità, del tribalismo, dell’appartenenza e dell’esistenza di una vera cittadinanza. Tutti temi non a caso al centro del rapporto tra globalismo e localismo, sempre più difficile e cruciale, e importantissimi nel pontificato di Francesco. Così si può leggere questo testo locale anche in chiave globale. Lui, monsignor Christian Carlassare , è famoso molto più del Paese dove è vescovo perché nel 2021, dopo essere stato nominato vescovo ma prima dell’insediamento “hanno fatto irruzione nella sua canonica due uomini armati che gli hanno sparato quattro colpi di arma da fuoco, raggiungendolo alle gambe. Per l’agguato sono stati condannati un sacerdote della diocesi di Rumbek e quattro laici. Il 25 marzo 2022, rimessosi in salute, ha ricevuto l’ordinazione episcopale, nella cattedrale della Sacra Famiglia a Rumbek, per imposizione delle mani del cardinale Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo emerito di Khartoum”. Dunque un uomo che dice molto già con la sua storia, che basta riassumere per intendere in tutta la sua portata.

Padre Spadaro racconta di averlo incontrato durante il viaggio di papa Francesco in Sud Sudan. E ovviamente parlando con lui ha parlato dell’identità di questo piccolo Paese, nato come Stato indipendente e sovrano nel 2011. Come sia nato questo Paese conta per loro, ma anche per noi, per capire il mondo d’oggi e i suoi problemi: “Il Sud Sudan non è nato dal nulla. Ha una storia tanto preziosa quanto affascinante. Tanti sono i gruppi etnici presenti nel Paese, ben 64, ognuno con la propria lingua, cultura e tradizioni. Purtroppo, è stata anche una storia segnata più dal contrasto e dallo scontro che dall’incontro e dalla comunione. A essere onesti, la storia in generale sembra marcata da una mancanza atavica di fraternità. E in Sud Sudan lo si è visto sia al proprio interno che in relazione con i diversi gruppi stranieri che sono entrati in questo territorio. Il Paese ha sperimentato lo schiavismo e poi, col colonialismo, lo sfruttamento delle proprie risorse. Quindi è emersa la questione identitaria. E il cristianesimo, più che la religiosità popolare, ha contribuito a infondere un senso di popolo che lo ha reso capace di rivendicare la propria indipendenza e libertà”.

Dunque è un “no”, o per meglio dire due “no”, a porsi alle origini di questa storia: il no alla schiavitù e il no al colonialismo. Ma i “no” bastano a creare un’amicizia? Queste parole indicano una risposta a questa domanda non posta nel testo: “I gruppi etnici del Sud Sudan si sono resi conto che, pur nella loro inimicizia, avevano un nemico comune da combattere insieme. L’esperienza sul campo ha mostrato loro che le divisioni indebolivano la causa sud sudanese piuttosto che promuoverla. Anzi, il governo centrale di Khartoum aveva di fatto favorito la conflittualità tra i diversi gruppi etnici del Sud, legittimando il proprio dominio sul Sud incapace di autogovernarsi. È in questo contesto che il Sud Sudan ha sviluppato più una identità frutto della consapevolezza di non essere un Paese arabo, né musulmano – e di avere l’identità di un Paese a sud di un altro – che la percezione della propria dignità, della propria resilienza e del proprio coraggio, quelli di una nazione nata da una storia comune di schiavitù e liberazione. Ed è questa positività che ci attende e alla quale dobbiamo lavorare”. Sembra qui trasparire un dato che a mio avviso emerge spesso in altre storie simili: l’oppressore conta per la sua politica “estremista” su opposti estremismi, qui identitari.

Il cammino storico, frutto di combattimenti e di accordi sofferti con il Sudan, con ambiguità gravi,  non ha facilitato la vita del nuovo Stato, ma il punto è più profondo: “Il problema fondamentale era se chi andava a governare rappresentasse davvero tutti i cittadini o solo il proprio gruppo. Il conflitto interno scoppiato a dicembre del 2013 ha mostrato l’incapacità di superare le ambizioni personali e gli interessi di gruppo per servire tutto il Paese. E in questo la popolazione è stata tradita”. Rivoluzioni tradite, una storia che si ripete… Ma lo sguardo del vescovo scruta più in profondità: “La gente stessa, con tanta semplicità, tende a definirsi come un popolo di traumatizzati. Non si può di certo arrivare a definire ogni singola persona come vittima del trauma, ma non si può nascondere il fatto che in generale la popolazione soffre i sintomi della sindrome post- traumatica, tanto da incidere sull’intero tessuto sociale. Un primo elemento è la violenza, che affiora in maniera del tutto inaspettata e può raggiungere livelli incomprensibilmente alti senza destare sdegno o condanna. Quindi c’è una forte tendenza a fare gruppo cercando protezione e sicurezza, a preferire il massimo profitto con il minimo sforzo, ad accettare la fatica solo se dà un risultato immediato, a pensare all’oggi senza grandi piani per il futuro, con l’avversione a risparmiare e a investire. D’altro canto, l’esperienza della fragilità produce umiltà e solidarietà, che si traduce nel far causa comune, perché solo insieme si possono superare tutti quegli ostacoli che intralciano la vita”.

Qui c’è una lezione umana da capire, se si vogliono davvero affrontare i problemi e non pensarli insolubili e quindi eterizzare le vecchie risposte. È qui che interviene, decisivo, il tribalismo: “L’individuo, infatti, può sopravvivere solo dentro il proprio gruppo – famiglia, clan, tribù –, che fornisce sicurezza e giustizia distributiva. Questa appartenenza viene prima di ogni altra, prima ancora della comunità allargata e dello Stato. Di conseguenza, la fedeltà alla tradizione e alla legge etnica della tribù ha priorità sulla legge civile, assunta sì dalla nazione, ma che si ispira a una filosofia del diritto del tutto estranea alla mentalità locale. Padre Gregor Schmidt, attuale superiore provinciale dei comboniani del Sud Sudan, scrivendo in una rivista di studi sudanesi, faceva notare che un nuer o un dinka non può fare affidamento su altro che sul proprio fratello di sangue”.

Ecco la questione della cittadinanza, cardine del pontificato di Francesco e del documento sulla Fratellanza. Da capire non stando in uffici con moquette, ma nelle strade polverose delle periferie: “È la famiglia a difendere il proprio membro, prima dello Stato. Perciò, c’è una lealtà assoluta nei confronti di un parente stretto, sia se abbia ragione o torto, sia se sia nel giusto o nell’errore, innocente o colpevole. L’appartenenza tribale, nota sempre p. Schmidt, oscura quasi completamente l’identità dell’individuo e, poiché l’identità di una persona è radicata nella sua collettività, l’altro è sempre percepito come rappresentante del suo gruppo etnico”. Globalizzazione, etnia, nazione, Stato: siamo al punto dell’oggi, visto dalla realtà delle periferie, non dalle vette astratte di ogni ideologismo: “ In Sud Sudan, più che in altri Paesi, una figura politica non riceve consensi per le sue idee e punti di vista, ma per la sua fedeltà al proprio gruppo”. Sembra di essere entrati nella carne del Documento sulla fratellanza firmato nel 2019 da papa Francesco e dall’imam al-Tayyib, come in molti punti dell’enciclica Fratelli tutti: “Il Sud Sudan ha mostrato quanto un conflitto militare possa prendere di mira i civili, colpevoli soltanto di appartenere al gruppo etnico nemico. E oltre a queste vittime dirette, tanti saccheggi e distruzioni, un esodo di sfollati, il declino dell’economia e tanta povertà, la più totale assenza di servizi in alcune aree del Paese, come per esempio scuole e ospedali, sottosviluppo e ingiustizia. Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha giustamente scritto che ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato”.

Si passa così dalle domande di valore globale a quelle specifiche. Il Sud Sudan ora è alle prese con se stesso, e quindi con la commissione per la verità, la riconciliazione e la guarigione dal trauma: “Al momento il governo ha aperto una consultazione per definire gli statuti. La partecipazione deve essere ampia perché tutti i gruppi siano rappresentati, soprattutto quelli più emarginati, inclusi sfollati e rifugiati. Sono iniziative che mostrano quanto sia forte il desiderio di superare l’ostacolo della divisione, ma non è così scontato raggiungere le persone che sono più ferite e riuscire a passare dal ricordo di una memoria dolorosa a una nuova situazione di vita riconciliata”.

Chiudiamo con un’altra decisiva per il Paese: il ruolo dell’esercito. “Questo è proprio un altro «nodo» da sciogliere. Sulla carta c’è pace soprattutto a livello nazionale, ma in realtà le comunità locali sono ancora afflitte da tante forme di conflitto e violenza, spesso provocate da persone influenti o gruppi che mirano a rivendicare il potere. Questi gruppi destabilizzano alcuni territori usando la forza per alzare la posta in gioco quando si trovano a sedere al tavolo per contrattare una nuova pace. È un dato di fatto che l’élite militare sud sudanese è fin troppo vasta. Un Paese che ha più generali che professori, si diceva qualche tempo fa: ben 745 generali, un numero che rendeva il Sud Sudan secondo solo alla Russia. Oltre a questo, il Paese ha un numero di persone reclutate nell’esercito regolare, così come in tante altre milizie, che è di molto superiore a quello di cui avrebbe effettivamente bisogno. In più, l’esercito risente del fatto che ogni battaglione risponde in tutto e per tutto al proprio comandante. Per questa ragione il pro- cesso di unificazione dell’esercito e formazione delle truppe è una risoluzione molto importante dell’accordo di pace a cui il governo ha prestato particolare attenzione. È un processo che richiederà tempo”.

Nel testo, sia in merito alla prima parte che alla seconda, c’è molto di più. Cercarne la presentazione può essere utile anche per vedere il nuovo sito del periodico della Compagnia di Gesù, qui .

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