Il fondo di venture capital, tra i più importanti della Silicon Valley, attua una strategia di sganciamento dalla Cina. Eppure solo un anno fa aveva investito oltre 9 miliardi nella sua costola asiatica. Se Jamie Dimon e Warren Buffett continuano a fare i “pontieri” col Dragone, gli asset owner (anche europei) scelgono la strada della prudenza: meglio ridurre gli investimenti in balìa del rischio geopolitico
Come riportato ampiamente dalla stampa internazionale, il fondo di venture capital Sequoia – uno dei principali della Silicon Valley con circa $ 85 miliardi in gestione e tra i primi a finanziare colossi come Apple, Google e YouTube – ha di recente reciso i legami con la Cina attraverso una complessa operazione che ha reso autonomo il ramo sinico del gruppo.
Sebbene un certo grado di autonomia decisionale fosse già garantito alla leadership di Sequoia China, la pressione negli ultimi tempi era divenuta intollerabile sul piano della sicurezza nazionale americana a causa degli investimenti effettuati in ByteDance, proprietaria di TikTok, ovvero in start up i cui prodotti – si sostiene – vengono utilizzati per il monitoraggio e la sorveglianza, e per operazioni di propaganda indirizzate ai cittadini americani (tra gli altri).
Ciò che colpisce, riporta il Financial Times, è la rapidità con cui i sottoscrittori del nuovo fondo da $ 9 miliardi raccolto l’anno scorso da Sequoia China – tra cui in particolare il fondo pensione del Massachusetts e gli endowments delle Università del Texas e di Washington – sono transitati da una sensazione di assoluta certezza circa il mantenimento di buone relazioni commerciali e finanziarie tra Stati Uniti e Cina ad una dominata dal timore di incorrere in pesanti sanzioni da parte delle autorità del proprio Paese e di dover sopportare un rischio reputazionale sui mercati.
Che il de-risking, per usare il termine adottato prima da Ursula von der Leyen e ora anche da Jake Sullivan, tra Occidente e Cina sia un fenomeno che investirà le economie e i sistemi finanziari globali per diversi anni a venire è reso chiaro proprio dal fatto che ne sono diventati consapevoli i cosiddetti asset owners, ossia quelle entità che si incaricano di preservare le risorse delle comunità locali, nazionali o settoriali di riferimento e che quindi si fanno interpreti anche per via finanziaria dei loro sentimenti più profondi e, in ultima istanza, del loro modo di stare al mondo.
Il fatto, pertanto, che a maturare questa convinzione sia la comunità dei dipendenti pubblici e degli insegnanti del Massachusetts e della cosmopolita Boston, alfiere soprattutto attraverso i suoi atenei Harvard e Mit dell’integrazione col resto del globo, testimonia di un processo ormai irreversibile in atto negli Stati Uniti, dove anche le residue differenze tra realtà costiere ed entroterra conservatore sembrano sfumare.
Lo stesso convincimento viene captato anche al di qua dell’Atlantico, dove il capo economista del gestore di fondi pensione olandese Apg – tra i più dotati a livello europeo e globale con circa € 530 mld di asset propri – manifesta la sua preoccupazione per il fatto di dover porre un freno ai nuovi investimenti in Cina e soprattutto di avviare una revisione di quelli, cospicui, già effettuati. Altri colossi dell’asset ownership occidentale, quali la Caisse de dépôt et placement du Québec, il fondo pensione degli insegnanti dell’Ontario e il fondo sovrano di Singapore GIC si trovano di fronte ai medesimi dilemmi strategici.
In questo contesto caotico, non mancano le voci e l’adoprarsi di coloro i quali, come il Presidente e Amministratore Delegato di Jp Morgan Jamie Dimon o come Warren Buffett e Charlie Munger di Berkshire Hathaway, vogliono scongiurare il rischio di una rottura irreversibile, o quanto meno lungo un orizzonte temporale molto prolungato, tra le due aree del mondo. Ciononostante, l’inerzia che sembra essersi innescata nei processi decisionali strategici della comunità finanziaria globale sembra andare verso la direzione opposta.
Questa stessa comunità, peraltro, deve trarre un insegnamento dalle lacerazioni da cui è pervasa nel periodo attuale e dal repentino mutamento di scenari che la costringono a ripetute virate: sono tutte difficoltà di manovra, infatti, che derivano dalla sostanziale inadeguatezza dei propri modelli previsionali a cogliere i grandi salti quantici, i cosiddetti cigni neri sia negativi sia positivi, così come le dinamiche geopolitiche di fondo che tanto incidono sulle variabili finanziarie più significative, in particolare i tassi di interesse. Tale rischio, forse, potrebbe essere mitigato attraverso il rafforzamento degli strumenti organizzativi e analitici di reazione ai grandi cambiamenti e un corrispondente minor affidamento sulle metodologie quantitative di previsione degli stessi.
(Foto dal profilo Twitter di Sequoia Capital)