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Dinamiche di una rivolta

Le trasformazioni in corso a sud del Mediterraneo stimolano e richiedono anche un ripensamento delle politiche europee verso la regione. L’enfasi sulla sicurezza, sul contrasto al terrorismo e all’immigrazione clandestina deve essere inserita in una prospettiva di reale cambiamento politico di lungo periodo dei regimi al potere. Sebbene sia indubbio che il Maghreb è entrato in una fase di transizione e che quindi potremmo assistere a rivolte e manifestazioni localizzate in altri Paesi, non è affatto scontato che si verificherà un effetto domino travolgente in tutta la regione
Gli eventi succedutisi a ritmo quasi irrefrenabile tra dicembre 2010 e l’inizio del nuovo anno hanno fatto accendere i riflettori di tutto il mondo su una regione, quella del Maghreb, che fino a quel momento era stata oggetto di attenzioni mirate e discontinue da parte dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo o aveva goduto di uno status subalterno nel quadro statunitense del “greater middle east”. Nonostante alcune voci autorevoli dell’accademia e del mondo dei centri di ricerca avessero messo in luce le crescenti criticità del percorso di sviluppo di Paesi quali Tunisia, Marocco ed Egitto, segno di una situazione potenzialmente esplosiva, i recenti eventi che hanno portato, tra l’altro, alla fine del regime ultra ventennale di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia sembrano aver colto di sorpresa l’opinione pubblica e i governi occidentali.
 
Tra i fattori che possono aiutare a comprendere come si è arrivati all’attuale situazione di profonda destabilizzazione, quelli socio-economici hanno avuto senza dubbio un peso cruciale. Nonostante i Paesi della regione, Marocco e Tunisia in primis, avessero già a partire dagli anni Ottanta adottato politiche economiche che puntavano sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni quali strumenti per ridurre il peso di un ingombrante settore pubblico, per offrire maggiore competitività alle proprie economie e per attrarre investimenti esteri diretti (Ide), le performance macroeconomiche degli anni successivi hanno determinato un aumento delle disuguaglianze sociali e regionali all’interno dei singoli Paesi e, soprattutto, non si sono tradotte in un netto miglioramento delle condizioni di vita e delle prospettive future di larga parte delle popolazioni.
Sebbene i movimenti di protesta che hanno occupato la scena in Tunisia e in Egitto si sono scagliati contro i regimi al potere corrotti e autoritari, l’origine del malessere ben presto divenuto rivendicazione politica è di natura sociale. Non a caso a scendere in piazza per primi sono stati i giovani molto spesso disoccupati. Il problema della disoccupazione, soprattutto giovanile, rappresenta la piaga più grave in Paesi come Algeria e Marocco dove due terzi della popolazione ha meno di venticinque anni e dove esistono anche grossi problemi nel settore dell’istruzione. La situazione in Tunisia è diversa. Qui a protestare contro la disoccupazione e contro l’aumento del costo della vita sono scesi in piazza i figli istruiti di una classe media laica impoverita dagli effetti indiretti della recente crisi economica globale. Infatti, si deve per ora parlare di effetti indiretti visto che le economie della regione hanno, ognuna in misura diversa a seconda della diversa esposizione alle economie cosiddette avanzate, soprattutto europee, sostenuto bene la crisi con tassi di crescita che vanno dall’1,8% nel caso della Libia al 5% in quello del Marocco nel 2009, con performance ancora migliori nel 2010, di molto superiori a quelli registrati nello stesso periodo dalle economie del vecchio continente. Tuttavia gli effetti indiretti si sono manifestati in un calo delle esportazioni verso i Paesi europei e quindi in un calo della produzione.
 
Le dinamiche della rivolta in corso in Egitto permettono di mettere in evidenza la dimensione politica del problema. Il regime di Mubarak, al potere dal 1981, ha alternato cicli di apertura a cicli di repressione delle forme di opposizione sia laiche che islamiste. Il più recente ciclo di repressione è stato quello scatenato dalle elezioni parlamentari del 2005, che avevano visto la vittoria di ben 88 seggi (20%) da parte dei Fratelli musulmani, e culminato con le recenti elezioni del novembre 2010 in cui l’opposizione islamista non ha conquistato alcun seggio. L’indebolimento delle opposizioni pone oggi il problema dell’assenza di una leadership in grado di guidare il processo di transizione in Egitto, mentre le preoccupazioni di gran parte dell’opinione pubblica occidentale e di Israele sono legate proprio alla possibile ascesa dell’islamismo che potrebbe ulteriormente destabilizzare la regione. In realtà accanto al fatto che in Egitto i Fratelli musulmani rappresentano solo uno dei volti dell’opposizione e che essi hanno anche perso parte del proprio potere di mobilitazione politica a causa, da una parte, della repressione del regime e, dall’altra, di crescenti divisioni interne, è da osservare che gli altri Paesi della regione non sembrano esposti ad una ondata di islamizzazione.
 
Sebbene sia indubbio che il Maghreb è entrato in una fase di transizione e che quindi potremmo assistere a rivolte e manifestazioni localizzate in altri Paesi, non è affatto scontato che si verificherà un effetto domino travolgente in tutta la regione e oltre. In altre parole, esistono altri fattori che rappresentano importanti valvole di sfogo che possono contenere una situazione altamente volatile. Per esempio, sebbene anche l’Algeria sia stata scossa da proteste causate dall’aumento del costo della vita e dalla disoccupazione, il regime di Bouteflika è per il momento riuscito a contenere la situazione grazie alla redistribuzione delle rendite di gas e petrolio alla popolazione, a una situazione di relativa libertà di espressione e soprattutto grazie alla collusione totale dell’esercito con il regime, cosa che è venuta a mancare in Tunisia.
Le trasformazioni in corso nella regione a sud del Mediterraneo stimolano e richiedono anche un ripensamento delle politiche europee verso la regione. L’enfasi sulla sicurezza, sul contrasto al terrorismo e all’immigrazione clandestina deve cioè essere inserita in una prospettiva di reale cambiamento politico di lungo periodo dei regimi al potere.


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