Il discorso dell’ex presidente del Consiglio è supportato dai numeri? E di conseguenza, quali politiche economiche e finanziarie, a differenza del passato, sarebbe opportuno seguire? Meraviglia e preoccupazioni sulla situazione economica italiana nell’analisi di Gianfranco Polillo
L’ultimo intervento di Mario Draghi al Mit di Boston più che un commento merita una verifica. Vedere cioè se i numeri supportano la sua analisi. Domanda retorica, ma fino ad un certo punto. Da questa eventuale convergenza, infatti, può scaturire la dimostrazione che il cambio di paradigma sia veramente intervenuto. Caratteristica che non sarebbe, allora, attributo esclusivo del mondo reale, ma anche della sua necessaria rappresentazione. E di conseguenza delle politiche economiche e finanziarie che, a differenza del passato, sarebbe opportuno seguire. Insomma: una “sorta di nuovo inizio” come si è detto in passato, anche se non sempre a proposito, per evocare le necessarie discontinuità.
Del resto se fossimo in tempi normali, il giudizio sulla situazione economica dell’Italia non potrebbe essere più lusinghiero. Ferme restando le nubi viste all’orizzonte, come indicato dalle ultime previsioni Istat, mal comune di tutti i Paesi, per il resto è addirittura meraviglia. Come del resto si intravede anche nelle ultime previsioni dell’Ocse. Meraviglia che il “vecchio malato d’Europa”, come l’Italia era considerata solo qualche anno fa, potesse assumere la postura della fenice e risorgere dalle ceneri. Solo alcuni dati per mostrare questo evidente stupore.
La Commissione europea, nel forecast dello scorso inverno, aveva previsto un tasso di crescita dello 0,3 per cento. Negli ultimi elaborati la sua riclassificazione è stata pari all’1,2 per cento. Più o meno identica la situazione in casa. Per l’Istat lo scorso dicembre il cosiddetto “acquisito” per il 2013 era pari allo 0,4 per cento. Le ultime previsioni indicano, invece, uno 0,9 per cento. Nel confronto con gli altri Paesi l’Italia è in pool position. Nel primo trimestre dell’anno, il suo tasso di crescita, pari allo 0,5 per cento, è stato tra i più alti del G7. Inferiore solo a quello del Canada e pari alla sola Spagna. Identico primato tra i principali soci dell’Eurozona. Ex equo con la Spagna. Ma mentre quest’ultima presenta un debito estero pari al 60,5 per cento del Pil (dati 2022), la posizione creditrice dell’Italia nei confronti dell’estero è par al 3,9 percento del Pil.
Le preoccupazioni sono, invece, legate ad un contesto più generale. Considerato che i tempi sono tutt’altro che normali. Non c’è solo la guerra ed una difficile congiuntura internazionale. C’è soprattutto il progressivo cambiamento degli equilibri geopolitici complessivi dell’intero Pianeta. Anche qui un dato. Agli inizi degli anni ‘90, quando la globalizzazione era ancora agli esordi, il peso dei G7 sull’economia mondiale era pari al 50,4 per cento e quello dei Brics al 16,8. Alla fine dell’anno i relativi rapporti, secondo le previsioni del Fmi saranno, invece, pari a 29,89 e 32,12 per cento.
Un dato solo economico? Tutt’altro, basta vedere quel che è accaduto in Arabia Saudita, con la Cina a fare da mediatore tra la monarchia Saudita (sunnita) e i teocratici sciiti di Teheran. Con riflessi possibili sulla lunga e poco conosciuta guerra nello Yemen. Quando si parla dei Brics si parla soprattutto del soft power cinese, con Putin che si è intestato il ruolo del mazziere, sul piano militare. La penetrazione cinese in Africa è ben nota. Meno il tentativo di sostituire progressivamente il dollaro come moneta universale. Gli scambi con l’Argentina, come con la Russia, avverranno in yuan.
Ancor meno analizzata la posizione cinese nel Mediterraneo. Le sue esportazioni sono la componente principale delle importazioni dell’Egitto e dell’Algeria. Sono invece al terzo posto in Tunisia e Marocco. Tutto il Nord Africa, in altre parole, è colmo di prodotti cinesi, per un giro d’affari (2022) paria circa 30 miliardi di dollari. La penetrazione commerciale cinese, insieme a mille altri fattori, ha contribuito a destrutturare le economie di quei Paesi. Nel 2006 il surplus delle loro partite correnti era pari al 14,4 per cento del Pil. Dieci anni dopo un deficit dell’8,2 per cento. Una caduta rovinosa di oltre 22 punti che ha trasformato economie, una volta resilienti, in una sorta di dependance finanziaria delle autocrazie orientali.
Anche questo un fatto solo finanziario? No: almeno a giudicare dalla strategia seguita dalla Cina in altre zone del Pianeta. Finanzio gli squilibri della tua bilancia dei pagamenti, per favorire le esportazioni “Made in China”, ma alla fine quei debiti li devi pagare. E se non hai risorse adeguate, ti pignoro il patrimonio che passa in mani cinese. Vedi il porto del Pireo. Oggi, tuttavia, quella strategia ha anche un addentellato politico. Favorire l’adesione dei nuovi Paesi “non allineati” ai Brics, come sta avvenendo, per l’Algeria, l’Egitto o la stessa Tunisia. Oppure disarticolare le vecchie alleanze militari, come è avvenuto per gli Emirati arabi, che sono usciti dal Combined Maritime Forces, guidata dagli Usa.
Tutto ciò non potrà non avere un riflesso sull’Occidente in generale e l’Europa in particolare. Finora l’Ue è vissuta in un limbo mercantilista. Da sottoscrivere l’analisi di Draghi. Tutta concentrata a fare affari, mentre il lavoro sporco – la sicurezza – era affidata soprattutto alla Nato ed agli americani. È così diventata il “ventre molle” di un sistema destinato a subire sempre più gli effetti delle maree montanti alimentate dal cambiamento dei rapporti di forza a livello mondiale. Un solo dato, nella sua emblematicità, illustra questa parabola. Dal 2012 il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è stato positivo, per un valore pari ad una media del 2 per cento del Pil. Il segno più evidente di una politica più interessata a far prevalere la stabilità finanziaria che non la crescita economica complessiva.
La connessa posizione di rendita, legata a questa situazione, è destinata ad esaurirsi rapidamente. Le spese per la sicurezza sono destinate ad aumentare rapidamente, quale riflesso delle turbolenze internazionali. Si trattasse solo di questo: il fatto è che dovrà cambiare tutta la politica estera. Divenire più dinamica e quindi più dispendiosa, non essendo pensabile – emblematico proprio il caso della Tunisia – di poter competere con i cinesi sul loro stesso terreno. Offrendo cioè i prodotti richiesti ad un prezzo inferiore, per poi finanziare, almeno per un certo periodo, i conseguenti squilibri della bilancia commerciale, dei nuovi Partners.
È questo uno scenario condiviso? Sembrerebbe il contrario. Le proposte per il rinnovo del Patto di stabilità si muovono nel solco della più solida ortodossia. Premiano troppo la stabilità finanziaria a discapito della possibile crescita, anche se alcuni suggerimenti sono degni di nota. Recano, tuttavia, in sé una contraddizione profonda. Propongono, con gli accordi di Parigi e la digitalizzazione, una riconversione produttiva ben più penetrante di quella che segnò il passaggio dal “capitalismo manchesteriano” al “fordismo”, non avendo tuttavia a disposizione le risorse, specialmente nel comparto pubblico, necessarie per sostenerne lo sviluppo.
Anzi queste ultime dovrebbero essere riorganizzate per abbattere indebitamento e debito pubblico. Debito che in Europa ha raggiunto (anno 2022) in media il 95,4 per cento del Pil e che si vorrebbe riportare al 60 per cento, in un arco di tempo circoscritto. Il che è come voler rimettere nel tubetto il dentifricio appena uscito. Difficile, quindi, che tutto ciò sia compatibile con il proposito di giungere nel 2035 al bando dei motori termici dalle nuove autovetture o al progetto della “green casa”. Cambiamenti di questa portata non potranno avvenire senza il ricorso a nuove forme di “aiuti di Stato” dai costi più che rilevanti.
Ed allora il percorso di abbattimento del debito non potrà che essere modulato in forme meno stringenti. Le nuove generazioni saranno quindi chiamate a pagarne i costi relativi? Quasi sicuramente. Ma sono sempre loro che abiteranno il mondo nuovo: che fin da ora si intende voler costruire. Mentre per quelle più anziane la loro speranza di vita è quella che è. Soprattutto ai giovani, quindi, l’onere della scelta: tra il sacrificio di un debito maggiore o il beneficio di un ambiente migliore. Non una novità comunque, ma una costante dell’evoluzione storica. Ogni generazione è stata chiamata a far fronte alle colpe dei padri. I nati dopo il 1945 avevano ricevuto in eredità le distruzioni ed i costi delle guerre imperialiste. I nati dei primi del ‘900 quelli della dissoluzione degli “imperi centrali”. La speranza è che il futuro fardello sia, comunque, più lieve del lascito che ha segnato gli anni del “secolo breve”.