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Sauditi a Teheran, emiratini a San Pietroburgo. Grandi movimenti mediorientali

Il ministro saudita a Teheran e il presidente emiratino a Mosca mandano messaggi chiari al mondo e parlano all’Occidente a proposito dei loro piani globali. E intanto bin Salman è da Macron

Nello stesso giorno in cui il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, incontrava  a Teheran il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, il factotum e presidente emiratino, Mohammed bin Zayed, era ospite a San Pietroburgo del leader russo, Vladimir Putin. Le due visite non sono collegate (almeno non formalmente), tuttavia raccontano insieme di quanto Riad e Abu Dhabi abbiano intenzione di giocare la propria parte nelle dinamiche internazionali.

La missione del ministro saudita è unica nel suo genere in questi decenni, in cui le due principali potenze del mondo islamico — agli antipodi per interpretazione confessionale e per interessi geopolitici — si sono combattute. Ma adesso hanno scelto una forma di distensione. Arabia Saudita e Iran hanno accettato di normalizzare le relazioni secondo un’intesa mediata a lungo da altri attori regionali (su tutti Iraq e Oman), in parte facilitata da statunitensi ed europei, ma firmata definitivamente a Pechino — e secondo i sauditi firmata più che altro per compiacere la Cina. Tra i due Paesi restano dossier aperti anche piuttosto delicati, non siamo davanti a un allineamento strategico, ma a un avvicinamento tattico. Che tuttavia è meglio di una guerra.

La visita di bin Zayed a San Pietroburgo è invece legata al forum economico annuale russo che viene organizzato nella città natale di Putin (l’acronimo con cui è conosciuto l’evento è Spief). Allo Spief le aziende degli Emirati Arabi Uniti hanno un ruolo di primo piano a differenza di molte controparti occidentali che sono rimaste lontane a causa del conflitto in Ucraina (misura scelta sia a livello ideologico dalle singole società, che forzatamente indotta dal regime sanzionatorio anti-russo che impedisce agli occidentali praticamente ogni genere di relazione). Gli Emirati non hanno aderito alle sanzioni occidentali contro Mosca: mentre Dubai, da tempo popolare tra i turisti russi, negli ultimi 16 mesi è diventata un’oasi sicura per gli uomini d’affari russi (con voli diretti molto frequentati verso Mosca e legami economici in espansione), Abu Dhabi ha mantenuto buone relazioni con la Russia anche nell’ambito del sistema di controllo del mercato petrolifero Opec+.

“Signor Presidente. […] molte minacce ci stanno arrivando, soprattutto vista la situazione odierna della Russia […] ma abbiamo deciso e ci siamo mossi indipendentemente dalle condizioni poste dall’Occidente”, ha detto bin Zayed a Putin — parole che l’emiratino ha scelto di far uscire pubblicamente, scambiandole con il russo mentre si stavano dirigendo verso la sala in cui avrebbero poi parlato riservatamente. “Vorrei anche sottolineare le discussioni dei due paesi sulla cooperazione per garantire la sicurezza marittima e ridurre la proliferazione delle armi di distruzione di massa”, ha detto invece il ministro Faisal da Teheran, sottolineando due ambiti in cui finora i sauditi hanno lavorato con gli Stati Uniti — e invece adesso, grazie alla mediazione cinese che ha obliterato le attività precedenti, tutto può ipoteticamente essere affrontato in forma bilaterale irano-saudita (magari con un occhio di Pechino, ammesso abbia intenzione di fare sul serio riguardo alla presenza non solo economica nella regione).

Coinvolgendo la Cina nel loro recente accordo, sia l’Iran che l’Arabia Saudita vogliono dare un chiaro segnale agli Stati Uniti: il ruolo di Washington può essere sostituito. Qualcosa di simile arriva dalle parole di bin Zayed a Mosca. Ed è evidente che da entrambi i contatti diplomatici emerga la volontà dei due Paesi leader del Golfo di muoversi sul palcoscenico internazionale in forma indipendente. A Washington esistono due generi di approcci davanti a certe dinamiche: c’è un tipo di pensiero che vede in certe azioni la conferma che le monarchie del Golfo non saranno mai integrabili del tutto nel sistema di attività delle Democrazie (quello elevato a motore e vettore delle relazioni internazionali americane); ce n’è un’altra che ormai si è rassegnata al pragmatismo, consapevole che per capacità economiche e politiche (innanzitutto di leader come bin Zayed), quei Paesi hanno ormai raggiunto il punto in cui vogliono curare i propri interessi sul piano internazionale e preferiscono farlo in modo multipolare, e allora va preso ciò che si può prendere nei rapporti.

Sempre nello stesso giorno, l’erede al trono saudita, già primo ministro e ruler de facto Mohammed bin Salman (che presto potrebbe andare a Teheran), era a Parigi per un incontro con Emmanuel Macron (tra i temi del dialogo anche il Libano, che nei giorni scorsi ha per la 12esima volta chiuso senza decisioni la seduta parlamentare per eleggere il presidente, e i cittadini esausti assaltano le banche). Sempre ieri, al Russia ha annunciato l’apertura di un ufficio consolare a Gerusalemme (dove l’amministrazione Trump aveva spostato l’ambasciata riconoscendone il ruolo di capitale di Israele), e la Turchia ha annunciato la nomina di un nuovo ambasciatore in Russia. Quest’ultima avrà un’urgenza: riuscire a mediare una nuova intesa sul grano tra russi e ucraini, prima che scada alla fine di luglio e che si creino ulteriori situazioni di inflazione alimentare. Fenomeno che potrebbe colpire pesantemente il Global South, oggetto degli interessi delle attività internazionali di Emirati, Arabia Saudita, Russia, Cina, Turchia.


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