Skip to main content

La mossa Ue sulla sicurezza economica letta da Zecchini

L’Europa è molto vulnerabile al ricatto economico di grandi fornitori di beni essenziali come dei Paesi che rappresentano i maggiori sbocchi per i prodotti europei. Ecco le ragioni della nuova strategia secondo Salvatore Zecchini

La Commissione Europea ha da poco presentato al Consiglio e al Parlamento una proposta che traccia le grandi linee di quella che chiama Strategia europea per la sicurezza economica. In realtà, non si tratta di una vera strategia perché non fissa con precisione i traguardi da raggiungere, tempi e strumenti in analogia a quanto ha fatto con il programma Next Generation EU, che si è tradotto nella strategia dei Piani nazionali di ripresa e resilienza. Per questi si sono impegnate risorse aggiuntive da erogare a condizioni ben determinate e alquanto rigide sul raggiungimento delle mete intermedie. Il PNRR è una strategia per lo sviluppo nella stabilità, mentre l’ultima proposta vuol abbozzare una strategia per lo sviluppo nella sicurezza.

La Commissione intende innanzitutto richiamare l’attenzione dei paesi membri sui rischi per le loro economie, e di riflesso per quella europea, derivanti dalla dipendenza dal contributo apportato da grandi paesi concorrenti con i loro prodotti e i loro investimenti nel quadro attuale di grandi sconvolgimenti dell’ordine economico e degli equilibri geopolitici del recente passato. In altri termini, l’Europa è molto vulnerabile al ricatto economico di grandi fornitori di beni essenziali come dei paesi che rappresentano i maggiori sbocchi per i prodotti europei. Da questa premessa trae la conclusione che è sempre più urgente mettere in atto una strategia comune per affrontare insieme le sfide poste dal confronto con le maggiori economie mondiali e non cadere nella trappola del bilateralismo e delle convenienze dei singoli Stati membri nelle relazioni con queste potenze. Esempi recenti di bilateralismo non mancano e puntano soprattutto sulla Cina, ma anche sulla politica americana di sovvenzioni alle sue imprese, sulle importazioni di risorse energetiche e materiali strategici da paesi emergenti, oltre che dalla Russia sotto sanzioni, e sui trattamenti di favore per gli investimenti dei colossi americani delle ICT.

I rischi su cui si sofferma la proposta riguardano le filiere internazionali di forniture strategiche, la resistenza delle infrastrutture critiche ad attacchi anche informatici (cybersecurity), le tecnologie essenziali importate e altresì quelle esportate contro gli interessi della sicurezza europea, e i possibili ricatti economici che forzano i paesi ad assumere atteggiamenti accondiscendenti verso politiche di paesi terzi in contrasto con i valori europei.

L’evidenza statistica è inequivocabile: l’UE dipende nei materiali “rari” per percentuali tra il 38% e la quasi totalità dalla Cina, da paesi con regimi autoritari e da paesi lontani (Brasile, Australia e USA). La sua dipendenza dalle importazioni di fonti di energia supera la metà del suo fabbisogno (55,5% nel 2001). Per materie prime importanti come i metalli di base e strategici (ferro, rame, alluminio e zinco) la sua dipendenza dagli stessi paesi esteri è altrettanto notevole. Né si possono reperire fonti alternative nell’ambito europeo perché la geologia del nostro continente non le offre, se non per pochissimi materiali e certamente non in pochi anni. Sviluppare l’industria estrattiva richiede tempi alquanto lunghi e considerevoli investimenti.

In queste condizioni, affrancarsi in breve tempo dalla dipendenza dalla Cina e da paesi autoritari non è fattibile, soprattutto in una fase in cui si vuole bloccare l’import di origine russa. Le alternative più evidenti appaiono essere la diversificazione delle fonti di provenienza per raggiungere una composizione meno sbilanciata, il recupero dei materiali di scarto secondo le tecniche dell’economia circolare, una maggiore efficienza nei processi produttivi ed avanzamenti tecnologici che permettano di rimpiazzare importazioni strategiche con materiali più facilmente reperibili. Alcune di queste opzioni sono realizzabili in tempi non lunghi, come la diversificazione, il recupero e riciclaggio, mentre per realizzare avanzamenti tecnologici i tempi sono incerti e lunghi.

Sottostante a ogni scelta di tal genere si pongono, inoltre, questioni di convenienza di mercato, particolarmente rilevanti per l’impresa privata. Se attualmente si continua ad importare perfino per vie traverse da paesi sotto sanzioni o direttamente da quelli temibili, il motivo principale è dato dalla convenienza sul piano dei costi. I paesi europei sono anche consapevoli che né agendo singolarmente, né in blocco sono in grado di esercitare un significativo potere oligopsonistico in quanto importatori di tale grandezza da indurre la grande potenza fornitrice a coltivare amichevoli relazioni con l’Europa. Lo si è visto di recente quando solo una minoranza di paesi europei ha aderito alla possibilità di presentarsi sul mercato petrolifero in blocco e spuntare condizioni di prezzo più vantaggiose di quelle di mercato. L’esito positivo dei primi acquisti non ha invogliato a una generale partecipazione dei paesi membri, perché i maggiori hanno interessanti contropartite da offrire in cambio al paese fornitore, contropartite non disponibili agli altri.

Consapevole di questa realtà, la Commissione propone tre obiettivi principali per la strategia di sicurezza economica: puntare sull’avanzamento della competitività tecnologica, proteggere le sue tecnologie e i suoi dati con maggior rigore del passato per impedire che paesi temibili se ne avvantaggino, e collaborare con partners affidabili, che condividano le stesse preoccupazioni, con accordi commerciali e per il rafforzamento delle regole e delle istituzioni multilaterali.

Il modo di perseguire questi obiettivi consiste in primo luogo nella identificazione dettagliata dei rischi e nel loro monitoraggio nel tempo. Seguono l’impiego a fini strategici degli strumenti disponibili e, ove opportuno, la creazione di nuovi. Si tratta, quindi, di usare le leve comuni già esistenti per aggiungere tra le loro finalità l’esigenza di sviluppare e proteggere le realizzazioni tecnologiche europee da fughe di proprietà intellettuale o da usi esterni a scopi militari. Per non cadere nel protezionismo la Commissione si affretta a reiterare che il mercato unico rimane aperto agli scambi con altri paesi, ma nel quadro di un rafforzamento delle regole internazionali e del WTO, e con un uso più rigoroso dei controlli sugli scambi di prodotti sensibili.

Gli strumenti di attuazione della strategia non sono del tutto in mano all’UE perché gli Stati conservano una propria sovranità economica e quindi occorre coordinare quelli comuni con quelli nazionali. Con la strategia si andrebbe verso una più intensa collaborazione tra Bruxelles e gli stati membri particolarmente nel controllo dei flussi commerciali e nell’investire nelle nuove tecnologie. Occorre, tuttavia, un’unità di intenti e una coerenza tra le scelte degli Stati nelle materie di politica industriale e di quella per la difesa. Questo è uno degli scogli più difficili da superare perché gli interessi industriali non sono del tutto coincidenti e nemmeno quelli per la difesa. I grandi assenti nella proposta della Commissione sono proprio queste dimensioni e le implicazioni che ne conseguono. L’altro grande scoglio è rappresentato dalla messa a disposizione di risorse in comune.

Desta dubbi il riferimento della Commissione al Mercato Unico e alla concorrenza aperta al suo interno e verso l’esterno come strumenti per perseguire la sicurezza economica. Il recente allentamento della disciplina sugli aiuti di Stato in alcuni settori per contrastare i generosi incentivi concessi da altri (Cina e USA) ha prodotto più competizione tra paesi membri che maggiori investimenti in comune tra imprese europee. Ad esempio, Germania e Francia con sovvenzioni di decine di miliardi hanno convinto Intel a realizzare in quei paesi grandi impianti per il disegno e la produzione di microchips, piuttosto che impegnarsi nei progetti in comune previsti dal Chips Act. Il Critical Raw Materials Act mira a far crescere la ricerca ed estrazione di materie prime nel territorio dei paesi membri per ridurne la dipendenza dall’estero, ma si scontra con la realtà di territori che pur disponendo di riserve minerarie non si prestano allo sfruttamento per valide ragioni infrastrutturali, paesaggistiche e di altro genere.

Il richiamo alla transizione all’economia verde con il Net-Zero Industry Act, benché valido in via di principio nell’ottica del raggiungimento di una minore dipendenza dall’import energetico, non tiene conto dei tempi lunghi e del grande fabbisogno tecnologico e finanziario necessari per la realizzazione. La recente esperienza ne è prova: quando è crollato l’arrivo di petrolio e gas dalla Russia, la Germania ha dovuto riaccendere le centrali a carbone e riprendere l’estrazione di lignite, che sono altamente inquinanti.

La disciplina europea sugli aiuti nel quadro del mercato unico è necessaria per non venir schiacciati nella concorrenza ad armi impari, ma dovrebbe prevedere un bilanciamento per favorire l’emergere di colossi europei, originati dall’aggregazione di imprese di più Stati membri, in grado di competere con i giganti americani, cinesi e di altri paesi terzi che godono di aiuti pubblici. I dazi doganali compensativi degli aiuti esteri non risolvono interamente il problema, perché non si applicano ai mercati esteri in assenza di sussidi europei all’esportazione.

L’intreccio tra sicurezza economica, avanzamento tecnologico-industriale e difesa rimane nell’ombra nella proposta, pur essendo uno dei cardini delle scelte di politica industriale dei governi. Ciascuno dei grandi membri di solito si allinea su progetti di collaborazione europea nella misura in cui soddisfino anche un interesse nazionale. Lo si è visto nell’industria aeronautica civile, in cui un gruppo collabora nei progetti dell’Airbus e un altro in quelli della rivale Boeing. Stessa realtà nelle produzioni militari, campo in cui ciascun paese vuol difendere la sua industria e i suoi standards, col risultato di complicare le possibilità di una difesa comune. Pertanto, la Francia promuove il suo Rafale e i suoi carri, Germania e Italia insieme ad altri l’Eurofighter Typhoon, e analogamente in altri comparti.

Più complessa la situazione italiana, in quanto non dispone di una potenza né tecnologica, né industriale, né finanziaria, se non in qualche comparto di nicchia, e quindi si presta a produrre su tecnologie altrui, un’attività in cui riesce con successo. La vulnerabilità italiana si manifesta in varie occasioni, non ultima l’approvazione delle esenzioni dalla disciplina sugli aiuti pubblici per contrastare la grande concorrenza extra-UE. In contropartita del suo assenso, l’Italia conta sulla creazione di un Fondo Sovrano Europeo per sostenere le imprese svantaggiate. Questa possibilità tutt’ora resta nel limbo per i contrasti tra paesi sul modo di finanziarlo e di gestirlo.

In assenza di progressi, ci si attenderebbe un pacchetto di misure di politica industriale concentrate sul potenziamento della ricerca e produzione di tecnologie di avanguardia, per accelerare il passo verso una minore dipendenza dalle importazioni petrolifere, per sviluppare le competenze STEM, per la ricerca di nuovi farmaci, e per le tecnologie abilitanti. Ben poco di questo insieme si è visto, mentre molta cura ai settori tradizionali del Made in Italy, che seppur profittevoli, perpetuano uno stato di relativamente maggiore vulnerabilità. Al contempo, una miriade di interventi piccoli e meno piccoli che espandono la selva degli incentivi ed agevolazioni, in apparente contrasto con i dichiarati intenti di riforma degli incentivi per recuperare maggiori risorse da destinare a finalità più produttive.

Sulla sicurezza economica il cantiere si è aperto con la proposta della Commissione: ambiziosa nelle mete ed incerta negli strumenti da impiegare. Per l’Italia è essenziale perorare la causa degli interventi strategici da svolgere insieme ai partner entro e fuori l’UE per partecipare alla formazione di una massa critica di azioni a beneficio di tutti i paesi europei, piuttosto che dei più influenti. Ma la forza dell’Italia in sede europea si misurerà nel mostrare un impegno massiccio delle sue risorse finanziarie e di sapere, e non nell’ostruzionismo, come si è visto nella ratifica del MES. Altrimenti, i grandi partner europei andranno avanti da soli, incuranti del resto.

×

Iscriviti alla newsletter