Il messaggio principale che alla fine si trae dal Rapporto è che tornare a uno sviluppo robusto dell’economia e della società non è soltanto questione di finanziamenti, ma di superamento di limiti strutturali con salti in avanti nel sapere e nella produttività. L’analisi di Salvatore Zecchini
Malgrado i miglioramenti delle condizioni economiche e sociali nell’ultimo biennio, il nuovo Rapporto Annuale dell’Istat ci conferma l’immagine di un Paese ancora in bilico tra un graduale ritorno su un cammino verso un maggior benessere e una debolezza strutturale che sembra condannarla a un inarrestabile declino della società e dell’economia. Le evidenze statistiche, che sono presentate su entrambi gli aspetti, sono molto indicative e si prestano in alcuni punti a interpretazioni alternative a quelle presentate, se inserite nel contesto degli ultimi anni.
Il primo importante freno alla progressione del reddito è dato dalla denatalità, insieme al rapido invecchiamento della popolazione. Nello scorso ventennio la popolazione residente è andata restringendosi e l’immigrazione al netto degli espatri non riesce a compensare la perdita derivante dall’eccesso di decessi sulla natalità. Il calo delle nascite, secondo l’Istat, è dovuto per 80% alla riduzione della popolazione femminile in età di procreare e per il resto al continuo abbassamento del tasso di fecondità. La natalità tende a essere ritardata e limitata quanto al numero dei figli. Nello stesso periodo una fetta crescente della popolazione si è spostata nell’età post-lavorativa con un inconsueto allargamento della componente degli ultraottantenni (7,7% della popolazione), che naturalmente richiedono forme di assistenza sanitaria e di altra natura più intense che nel passato. Queste tendenze sembrano prolungarsi nelle proiezioni al 2041, componendo un quadro demografico del tutto nuovo che la società deve affrontare contando sul prodotto di un numero sempre più ristretto di occupati.
Al declino demografico si sommano un lento avanzare del tasso di occupazione e della produttività pro-capite. In una ridotta platea di atti al lavoro, per preservare il benessere acquisito e svilupparlo ci si aspetterebbe un forte incremento del tasso di occupazione e della crescita della produttività per addetto, entrambi fattori indispensabili. La realtà degli ultimi anni, seppure in miglioramento, appare, invece, distante da queste prospettive di medio-lungo periodo. Negli ultimi anni i tassi di occupazione e di produttività del lavoro hanno ripreso a salire, ma i livelli rimangono più bassi dei nostri maggiori concorrenti nell’Ue. Il ritmo della progressione tende, altresì, a rallentare in parallelo con l’ingresso in una fase discendente del ciclo di attività economica nell’area dell’Ocse.
Occorre, quindi puntare sulle giovani generazioni offrendo loro opportunità di istruzione e formazione in linea con le domande delle imprese e del Paese in questo periodo di grande trasformazione tecnologica e di transizione nel digitale e nella sostenibilità ambientale. Il Rapporto insiste sull’ostacolo rappresentato dalle disuguaglianze strutturali nelle opportunità, che incidono sulle prospettive dei giovani, e sottolinea aspetti relativi alle “deprivazioni” di cui appaiono soffrire. Considerata l’opinabilità di queste categorie, la criticità che più rileva è la partecipazione al lavoro e la capacità di cogliere le opportunità messe a disposizione dal sistema. Non basta offrire a tutti la possibilità di istruirsi, di avere una formazione al lavoro in linea con le competenze richieste e di avvalersi di servizi di avvio al lavoro, è anche necessaria la disponibilità a cogliere le opportunità. In altri termini, all’offerta di supporto deve corrispondere l’iniziativa dei giovani a utilizzarlo per inserirsi nel mondo produttivo, affrontando anche i disagi che comporta.
La realtà attuale, invece, mostra al netto del declino demografico, un’occupazione giovanile (15-34 anni) in continua contrazione dal 2004 con una modesta inversione dal 2020 e un andamento analogo del loro tasso di occupazione. Altri significativi divari di occupazione si registrano a seconda del genere e del territorio, con la componente femminile su percentuali nettamente inferiori, e altrettanto quella del Mezzogiorno nel confronto col Centro-Nord, disparità che si attenuano dal 2021 per il relativamente maggior dinamismo dell’occupazione nelle due componenti. Permane, inoltre, una massa di giovani che non partecipa a percorsi né d’istruzione, né di formazione, né è disponibile per un’occupazione. Si tratta di una perdita di capacità produttiva imputabile a circa il 20% dei giovani tra 15 e 20 anni di età (circa 1,7 milioni di Neet), che danno all’Italia un triste primato tra i paesi dell’Ue, superato solo dalla Romania.
Molteplici i fattori all’origine e non appaiono interamente esplicativi quelli addotti dall’Istat, che si riferisce all’offerta formativa, le politiche del lavoro e l’andamento della domanda di lavoro delle imprese. In realtà, i servizi privati di collocamento hanno successo, la formazione pubblica e imprenditoriale è agevolata con molti mezzi, la domanda di lavoro è in ripresa dal 2014 in parallelo con la riduzione dei Neet e una folta schiera di immigrati stranieri trova lavoro. Un’altra spiegazione andrebbe ricercata nella rete di sicurezza offerta senza contropartite dal welfare pubblico e familiare, nonché nelle soglie minime di condizioni che i giovani richiedono per accettare un’offerta di lavoro, non trascurando neanche di mettere in conto l’estensione del lavoro irregolare.
Secondo l’Istat, se si riuscisse a elevare il tasso di occupazione della popolazione al livello medio dell’Ue27, soprattutto delle componenti giovanili, femminili e meridionali si potrebbe valorizzare circa due terzi della capacità occupazionale attualmente inutilizzata. Naturalmente, si richiedono anche investimenti nell’istruzione e nelle competenze per elevare il livello delle capacità di lavoro, oltre che adeguati servizi per l’infanzia che agevolino l’occupazione femminile. Su questi versanti gli ostacoli non sono la disponibilità di risorse, ma l’impegno individuale e collettivo, oltre che quello organizzativo, a raggiungere questi risultati. Ad esempio, nel Pnrr sono previsti sostanziosi finanziamenti (4,6 miliardi) per gli asili nido, ma non si riesce a utilizzarli appieno e con efficienza per le carenze nelle amministrazioni pubbliche.
Consistenti risorse sono state, altresì, assegnate per l’accrescimento dei livelli di istruzione e delle competenze. I risultati, tuttavia, tardano a manifestarsi, come mostrano i test in sede Ocse (Pisa e Piaac) e in quello nazionale (Invalsi) il cui esito colloca finora il Paese tra le ultime posizioni nelle graduatorie sia europee, che internazionali. Le competenze nel lavoro e particolarmente quelle in tecnologia e digitali sono cruciali per non restare indietro rispetto alla concorrenza nell’attuale fase di profonda trasformazione in tutti i settori economici. Nell’ultimo decennio (2011-2022) l’occupazione qualificata non ha mancato di espandersi, con un ritmo, tuttavia, più lento dei maggiori paesi dell’Ue (1% contro 4,7% nell’Ue27). Anche gli occupati in settori ad intensità di scienza e tecnologia sono più numerosi del passato, ma la loro quota cresce meno che nell’Ue27 e resta distante dalla media europea con un distacco di oltre 11 punti percentuali.
Il deficit di competenze, in congiunzione con la dinamica degli investimenti e con la struttura dimensionale e settoriale del sistema produttivo, getta luce sulle cause del divario con l’Europa nella produttività del lavoro. Il sistema imprenditoriale ha mostrato capacità di resistere all’ultima grande crisi con investimenti in innovazione e ricerca anche durante il periodo del lockdown. La frammentazione del tessuto imprenditoriale si pone, nondimeno, come un ostacolo notevole all’irrobustimento degli investimenti in R&I. L’impegno nell’investire in prodotti della conoscenza, formazione delle competenze e nello sviluppo di innovazioni attraverso la ricerca cresce con la dimensione aziendale e si riflette specularmente sui guadagni di produttività.
Nel calo generale della spesa per innovazione nel 2020, le imprese hanno preservato quella destinata a R&S, benché con comportamenti differenti tra categorie di imprese. Quelle di media grandezza più attive hanno continuato a rafforzare la quota di spesa in questa direzione, avvicinandosi alla performance delle grandi, mentre le minori hanno avuto una limitata capacità di seguire la stessa strategia. La vulnerabilità delle piccole e microimprese, infatti, si manifesta in generale nella modestia degli investimenti, dell’impegno in R&I e della dotazione di capitale umano che possieda le competenze adeguate alla sfida tecno-digitale in corso. Le conseguenze si osservano sull’andamento e sul livello della produttività per addetto: la performance migliore si associa alla maggiore dimensione d’impresa e al più forte impegno nell’innovazione, benché si riscontri anche in alcune imprese medio-grandi. I limiti dimensionali delle imprese e i riflessi sulla propensione a investire in conoscenza costituiscono, pertanto, fattori strutturali d’indebolimento del potenziale di sviluppo economico nel medio-lungo periodo.
Consapevoli di questi vincoli, i governi succedutisi nell’ultimo decennio hanno ampliato gli incentivi agli investimenti delle imprese e li hanno resi più selettivi, orientandoli verso R&I, la digitalizzazione e la transizione verde, ad esempio con i programmi Industria 4.0 e Transizione 4.0. La risposta delle imprese è risultata molto positiva. Lo confermano le analisi di impatto effettuate dall’Istat sulla performance delle imprese misurata in termini di produttività totale dei fattori. L’impatto è significativo e relativamente più elevato per quelle che usufruiscono più frequentemente del credito d’imposta, ovvero quelle che investono maggiormente in R&I, e per quelle meno tecnologicamente avanzate.
Il messaggio principale che alla fine si trae dal Rapporto è che tornare a uno sviluppo robusto dell’economia e della società non è soltanto questione di finanziamenti, ma di superamento di limiti strutturali con salti in avanti nel sapere e nella produttività. Andrebbe aggiunto anche un rafforzamento dei valori e dell’impegno della società, contrastando modelli di assistenzialismo diffuso e di trascuratezza dell’importanza di un serio impegno individuale, studente o lavoratore che sia. Valori che sembrano smarriti anche nella scuola, quando studenti e genitori possono attaccare impunemente gli insegnanti impegnati seriamente nel trasmettere il sapere.