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Chi vincerà al grande gioco dei Paesi emergenti? Le risposte di Stefanini

Con la Cina la gara è nel dinamismo industriale, nell’alta tecnologia oltre che nella deterrenza in difesa dello status quo di Taiwan. Ma il teatro della competizione con Pechino, come con Mosca, non è solo bilaterale. È mondiale. Ci confrontiamo con entrambi in Africa, America Latina, Asia centrale, Medio Oriente e nel Mediterraneo. Il punto di Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi e già rappresentante d’Italia alla Nato

Il confronto fra grandi potenze – Stati Uniti e alleati, Cina, Russia – è un ritorno alla normalità storica: risale alle guerre del Peloponneso. C’è una novità di non poco conto. Sul palcoscenico internazionale le grandi potenze non trovano più soltanto il coro, buono buono sul retro. Lo devono dividere con una folla di attori alcuni dei quali, tipo Brasile o India, di comparabile (se non superiore) ordine di grandezza quanto a economia, demografia, peso geopolitico, soft power.

Anche a questa folla sta pensando la presidente del Consiglio per il G7 dell’anno prossimo in Puglia. E fa benissimo. L’affollamento internazionale ha due conseguenze. La prima è che le grandi potenze non fanno, da sole, il bello e cattivo tempo mondiale e si misurano con una pluralità di controparti, ognuna delle quali con propria visione e agenda. La seconda è la gara fra le grandi potenze stesse per guadagnare influenza nel resto del mondo e tirare dalla propria parte le nuove potenze emergenti.

Queste dinamiche si sono riflesse nella visita di Stato di Narendra Modi a Washington e nel suo discorso al Congresso. Ma non riguardano solo i grandi come l’India. In un mondo globale, la competizione si estende a tutti gli angoli del pianeta. Le dimenticate Isole Salomone diventano oggetto di una contesa geopolitica fra Cina, Usa e Australia. Chiunque guardi senza paraocchi alla scena internazionale sa che oggi Europa e occidente si scontrano con la Russia e si confrontano con la Cina.

Questo vale anche per l’Italia, a meno di non abbandonare l’identità euro-occidentale. Con l’una è in corso una guerra, con l’altra una competizione, ed è interesse reciproco gestirla anziché passare alle mani. Una gestione che è forse stata avviata fra Cina e Usa, con la visita del segretario di Stato americano Antony Blinken a Pechino, e con l’Unione europea che ha messo sul tavolo la strategia di “sicurezza economica” presentata dalla Commissione il 20 giugno, ispirata al “de-risking” concordato dal G7 di Hiroshima.

Ma sempre gara fra rivali rimane. Il G7 di Hiroshima ha messo le carte in tavola sulle due sfide, Russia e Cina. La risposta a Mosca è stata la conferma del sostegno all’Ucraina e la deterrenza militare sulla quale la parola è passata al vertice Nato di Vilnius. Con la Cina la gara si vince o si perde, o si pareggia nell’economia, nel dinamismo industriale, nell’alta tecnologia oltre che nella deterrenza in difesa dello status quo di Taiwan.

Tuttavia, il teatro della competizione con Pechino, come con Mosca, non è solo bilaterale. È mondiale. Ci confrontiamo con entrambi in Africa e in America Latina. Lo siamo in Asia centrale che, stretta nella tenaglia geografica russo-cinese, cerca ancoraggio politico multilaterale nelle Nazioni Unite e diversificazione commerciale con partner occidentali, come testimoniato dal recente Astana international forum in Kazakhstan.

Lo siamo in Medio Oriente e nel Mediterraneo da dove importiamo energia di cui abbiamo bisogno, immigrazione che temiamo di non controllare e rischi latenti di minaccia terroristica (abbiamo già dimenticato l’Isis?). Cina e Russia pongono una sfida diversa. Pechino punta sulla penetrazione commerciale e infrastrutturale, esemplificata dalla Via della Seta, ed è proprio questo che rende problematico continuarvi la partecipazione italiana.

Priva di potenza di fuoco economica, Mosca dispone di altre leve: sconti su petrolio e gas, rubinetto delle derrate alimentari dal mar Nero, mercenari di Wagner oggi scheggia impazzita all’interno ma da anni strumento del Cremlino in Mali, Libia, Repubblica Centro Africana, girandola diplomatica dell’instancabile Sergey Lavrov. Quest’ultima ha ottenuto un risultato non indifferente: la neutralità sulla guerra russo-ucraina.

L’occidente si è concentrato sull’obiettivo opposto con modesto successo: qualche voto all’Onu, facendo leva sul principio dell’integrità territoriale a tutti cara, ma nessuna adesione alle sanzioni. I Paesi emergenti hanno scelto di rimanere neutrali. Alcuni non potrebbero fare altrimenti. Questo vale anche per la rivalità Usa-Cina: “Non chiedeteci di scegliere”, ha detto il segretario di Stato pakistano Rabbani Khar.

Perché allora non invertire l’approccio? Avviare il dialogo politico senza precondizioni di schieramento. Poi, naturalmente, si vedrà dove porterà – non è quanto Biden cerca di fare con Modi? – ma intanto si piantano i semi della collaborazione senza lasciare il campo libero ai due rivali. Questo potrebbe essere il copione per una presidenza italiana del G7 che vuole coinvolgere il “Sud globale”.

*Questo articolo è stato pubblicato sul numero 193 (luglio 2023) della rivista Formiche


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