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Draghi a Cambridge, una riflessione profonda sui destini dell’Europa

Gianfranco Polillo legge e traduce per Formiche.net la conferenza resa da Mario Draghi, in onore di Martin Feldstein: “Il prossimo volo del calabrone: il percorso verso una politica fiscale comune nell’eurozona”. – Cambridge (Massachussets) 12 luglio 2023. Nella speranza di aver fedelmente interpretato il suo pensiero…

È un grande onore per me tenere la conferenza Martin Feldstein di quest’anno. Sono molto grato a Jim Poterba e al NBER (National Bureau of Economic Research ndr.) per l’invito. Il NBER è una pietra miliare del pensiero economico mondiale. Avete guidato il lavoro dei responsabili politici e contribuito a rendere il mondo un posto migliore. Personalmente sono molto grato per la ricerca che avete prodotto durante il mio periodo di governo e durante la mia permanenza nelle banche centrali. Vorrei anche rendere omaggio al defunto Marty Feldstein. È stato una figura imponente per tutta la mia carriera – infatti, è stato grazie a un suo invito che ho frequentato il primo Summer Institute nel 1978. Il suo lavoro sulla politica fiscale, l’economia pubblica e la dinamica del risparmio ha trasformato il nostro modo di pensare in tutte queste aree di ricerca. La ricerca di Marty ha sempre combinato idee perspicaci con solide prove empiriche e rilevanza politica. In qualità di presidente del Consiglio dei consulenti economici del presidente Ronald Reagan, ha guidato il cambio di paradigma nel rapporto tra governi e mercati, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. E ha fatto tutto questo, pur non rinunciando a prendersi cura, con grande dedizione, degli studenti universitari e dei laureati, facendo da mentore a molte generazioni di economisti.

La mia conferenza di oggi si concentrerà su un argomento che stava molto a cuore a Marty: la creazione dell’Unione monetaria europea e il suo futuro, su cui Marty era estremamente scettico. La sfida macroeconomica fondamentale della formazione di un’unione monetaria è stata individuata da Robert Mundell nel 1961 ed era incentrata sulla gestione degli shock asimmetrici. Poiché la politica monetaria e la politica del tasso di cambio dovevano rispondere alla gestione degli shock comuni, sarebbero stati necessari altri meccanismi di aggiustamento per affrontare quelli asimmetrici e impedire loro di innescare crolli regionali prolungati. Mundell ha identificato quei meccanismi di aggiustamento nei trasferimenti fiscali e nella mobilità del lavoro e dei capitali, che potrebbero stabilizzare ex post la domanda nelle regioni depresse. Nella letteratura successiva è stato anche riconosciuto il ruolo cruciale della condivisione del rischio attraverso l’integrazione del mercato dei capitali, che limiterebbe ex ante l’entità degli shock locali.

L’euro, tuttavia, è andato avanti, sebbene poco sia stato fatto nella direzione indicata. I trasferimenti fiscali tra gli Stati membri sotto forma di assunzione dei debiti reciproci sono stati messi fuori legge dal trattato di Maastricht, riflettendo la filosofia secondo la quale i paesi dovrebbero “mantenere in ordine la propria casa” e non fare affidamento sulla generosità altrui. Il riequilibrio regionale, grazie alla mobilità del lavoro, era poco sviluppato. Gli studi all’epoca indicavano che la maggior parte degli shock occupazionali veniva assorbita attraverso i cambiamenti del tasso di partecipazione piuttosto che attraverso la migrazione. E non c’è stato alcun serio tentativo di integrare i mercati finanziari europei, al di là di un morbido allineamento normativo. Allora perché l’euro è stato creato? Viste da questa parte dell’Atlantico, le ragioni erano spesso incomprensibili. Molti economisti avvertivano che l’unione monetaria europea era destinata a fallire, che le élite avevano imbrogliato il loro popolo e – come avvertì Marty Feldstein in un famoso articolo del 1997 per Foreign Affars – che le conseguenze sarebbero state drammatiche. L’UE, in definitiva, era condannata sia come progetto economico che come progetto politico.
C’era tuttavia un’altra prospettiva, ovvero che l’euro fosse la conseguenza dei passati decenni di integrazione – in particolare dell’evoluzione del mercato unico europeo – e che fosse solo l’ulteriore passo di una strada molto più lunga verso l’Unione politica. Da questo punto di vista, la domanda chiave non era se l’area dell’euro fosse un’area valutaria ottimale fin dall’inizio – ovviamente non lo era – ma se i Paesi europei fossero disposti a farla convergere nel tempo verso quell’obiettivo. Ipotesi che sembrava essere smentita dai primi risultati legati alla nascita dell’euro, destinati ad accrescere i dubbi degli scettici. Ed è facile capire perché molti non considerassero credibile quella narrazione politica, soprattutto una volta che l’euro era stato lanciato e le fasi successive dell’Unione politica iniziate a manifestarsi. Tanto più che quando gli europei hanno avuto la possibilità di dimostrare il loro impegno per l’Unione politica sotto forma di una Costituzione europea, l’hanno respinta. Poi, a metà degli anni 2000, l’UE aveva scelto di allargarsi all’Europa orientale, senza riformare le sue regole decisionali, probabilmente indebolendo piuttosto che rafforzando la sua struttura politica. Ma avendo preso parte ai negoziati per l’Unione monetaria nei primi anni ’90, come capo del Tesoro italiano, posso attestare che quella motivazione politica, di cui dicevo in precedenza, era reale.

L’obiettivo di costruire un’Unione europea sempre più unita era un sentimento profondo, nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale, tramandato attraverso generazioni di leader politici e concepito soprattutto per evitare ulteriori conflitti. La moneta unica era considerata, al tempo stesso, un passo fondamentale verso tale obiettivo e la scelta necessaria per preservare le conquiste del mercato unico. La priorità era stata quindi quella di cogliere il momento storico senza dover attendere che si verificassero tutte le condizioni necessarie. C’era, inoltre, la genuina convinzione che l’impegno fondamentale per l’unità europea avrebbe creato la volontà politica per affrontare quegli eventuali difetti di progettazione che si sarebbero appalesati lungo il percorso. Siamo, quindi, andati avanti, eludendo le nostre contraddizioni ma nella ferma convinzione che esse, nel tempo, si sarebbero risolte.

Nel frattempo, il successo sarebbe dipeso dal verificarsi di tre condizioni. Innanzitutto sul piano nazionale, gli stabilizzatori fiscali dovevano essere in grado di operare liberamente, ed, in condizioni normali, fornire una sostanziale stabilizzazione contro gli shock locali. Le stime dell’epoca suggerivano che i bilanci nazionali potessero garantire anche la stabilizzazione degli shock asimmetrici come, nel caso del bilancio federale degli Stati Uniti. In secondo luogo, l’impegno politico per l’euro doveva determinare trasferimenti impliciti al posto di quelli espliciti – attraverso i quali i paesi fiscalmente più deboli “prendevano in prestito” la credibilità di quelli fiscalmente più forti, godendo di minori costi di finanziamento. Il che avrebbe consentito ai governi di attuare politiche di stabilizzazione senza alcuna minaccia per il loro accesso al mercato. In terzo luogo, le norme fiscali dovevano essere progettate e applicate in modo tale da ancorare, nel medio termine, la fiducia rispetto alla solidità dei conti pubblici, in modo che espansioni anticicliche non non fossero in grado di generare fondamentali questioni di solvibilità. In tal modo, le promesse che sottendono ai trasferimenti impliciti non avrebbero mai dovuto essere testate.

Nel primo decennio dell’euro, le prime due di queste condizioni si sono ampiamente verificate. I mercati hanno visto gli emittenti sovrani dell’area dell’euro sostanzialmente intercambiabili, con gli spread sulle obbligazioni italiane convergenti, salvo pochi punti base, verso quelli tedeschi. E gli stabilizzatori fiscali nazionali sono stati in grado di operare in modo relativamente libero di fronte a shock economici moderati, come dopo l’11 settembre o il crollo delle dotcom. Ma così non è stato per la terza condizione. Le regole di bilancio europee sono state costruite attorno a limiti di disavanzo – con un tetto del 3% del PIL – che hanno creato una intrinseca pro ciclicità. Ogni volta che un paese cresceva rapidamente, otteneva entrate inaspettate che facevano sembrare meno rigido il tetto del deficit, il che portava, a sua volta, a impegni di spesa crescenti e deficit strutturali più elevati. Ma se il ciclo avesse girato bruscamente, quelle entrate sarebbero svanite, mentre gli impegni strutturali sarebbero rimasti, riducendo rapidamente lo spazio fiscale. Di conseguenza, a seguito di uno shock importante dopo il fallimento di Lehman, i deficit sono aumentati a dismisura. Temendosi diffusi default, anche i creditori privati sono stati salvati dai Governi, spingendo i debiti pubblici più vicino a livelli che non potevano essere sostenuti dai soli trasferimenti impliciti.

L’ambiguità costruttiva dell’impegno comune per l’euro doveva essere limitata dalla presenza di piani dettagliati di ciò che sarebbe accaduto in condizioni estreme. Inizialmente i governi dell’area dell’euro hanno risposto ampliando la tipologia degli strumenti di interventi per consentire trasferimenti limitati sotto forma di assistenza finanziaria in stile FMI. E lo hanno fatto con successo, lanciando il primo salvataggio della Grecia e un meccanismo comune di finanziamento europeo. Ma poi alla fine del 2010 i leader dell’UE hanno annunciato che i futuri salvataggi sarebbero stati soggetti alla ristrutturazione del debito sovrano: il cosiddetto “accordo di Deauville”. In un istante, quell’annuncio ha interrotto i trasferimenti impliciti e ha iniettato il rischio di credito in tutte le obbligazioni sovrane europee. Lasciandoci solo due possibili scelte. La prima è stata quella di dover accettare diffusi fallimenti sovrani al fine di “ripristinare” l’Unione a livelli di debito inferiori, preservando così il principio che gli Stati fiscalmente più forti non devono pagare per quelli più deboli. Ma proprio perché i livelli di indebitamento iniziale erano così elevati e le disponibilità di titoli di stato erano concentrate all’interno del sistema bancario dell’area dell’euro, i conseguenti default non potevano rimanere eventi contenuti se non in casi molto limitati.

Temendo perdite di capitale e, nel peggiore dei casi, la sua ridenominazione in valute di valore inferiore, gli investitori hanno svenduto il debito pubblico di qualsiasi paese percepito come vulnerabile, innescando un circolo vizioso nel peggioramento dei bilanci bancari, con conseguente inasprimento delle condizioni del credito e crollo del tasso di crescita e, in ultima analisi, una profonda frammentazione finanziaria. Entro il 2012, lo spread dei titoli di Stato decennali rispetto a quelli tedeschi aveva raggiunto i 500 punti base in Italia e i 600 punti base in Spagna, con spread ancora più ampi in Grecia, Portogallo e Irlanda. Poiché quelle economie rappresentavano un terzo del PIL dell’area dell’euro, era impensabile che il resto dell’Unione non fosse costretta a cambiare opinione. La seconda opzione era quindi quella di fare trasferimenti più espliciti, che è ciò che l’Europa alla fine ha fatto, anche se in modo non ottimale. Essa ha ampliato il meccanismo di finanziamento comune, ed ha aumentato la condivisione del rischio attraverso i prestiti frontalieri all’interno dell’Unione.
La letteratura più recente ha rilevato che prima della crisi del debito sovrano, solo il 40% circa degli shock specifici per paese nell’area dell’euro, come misurato dalla deviazione tra consumi e produzione, veniva assorbito. Una volta garantita l’assistenza ufficiale, circa il 60% degli shock è stato attenuato. Il prestito concesso, a sua volta, ha facilitato una forma di trasferimento fiscale, poiché i creditori pubblici hanno esteso i loro prestiti, per i decenni futuri, a tassi di interesse fissi molto contenuti, che porteranno nel tempo a grandi trasferimenti intertemporali a favore dei Paesi che hanno ricevuto assistenza finanziaria. Questa risposta ha avvicinato gradualmente l’area dell’euro a un’area valutaria ottimale. Ma i trasferimenti erano ancora in qualche modo inferiori al modello che Mundell aveva immaginato. Il problema principale era che, mentre nei paesi che li ricevevano il loro effetto stabilizzante era minato dai rigidi termini dei programmi di aggiustamento che li accompagnavano. Negli altri, le regole fiscali procicliche dell’Europa aggravavano la debolezza della domanda: trasformando una contrazione fiscale aggregata in uno shock recessivo.

Poiché i paesi si sono sforzati di rimanere nei limiti del disavanzo, l’orientamento fiscale dell’area dell’euro si è inasprito di circa 4 punti percentuali del PIL potenziale dal 2011 al 2013, anche nei paesi che disponendo di un ampio margine di bilancio e non avevano subito pressioni di mercato, riducendo così la domanda per le esportazioni da paesi senza spazio fiscale. Al tempo stesso circa due terzi del risanamento fiscale complessivo è avvenuto attraverso aumenti delle tasse piuttosto che tagli alla spesa, riducendo così ulteriormente il reddito disponibile e il consumo. Il difficile cammino verso la costruzione di un’unione monetaria ottimale è risultato evidente nelle risposte divergenti date in Europa allo sviluppo di quel processo. In Grecia e in altri paesi, anni di austerità hanno alimentato un crescente populismo. Ma in Germania, anche l’euroscetticismo è cresciuto quando sono comparsi nuovi partiti che si opponevano ai salvataggi e temevano di prendere a bordo i paesi più deboli. Nonostante tutti questi problemi, tuttavia, l’euro è sopravvissuto

La Banca centrale europea ha annunciato nel 2012 che sarebbe stata nel suo mandato fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, una decisione sanzionata dalla Corte di giustizia europea tre anni dopo. Gli investitori hanno smesso di scommettere contro la dissoluzione della moneta comune, poiché sapevano che i decisori europei non avrebbero mai permesso che ciò accadesse. E i governi di tutti i colori e di tutti i paesi hanno continuato a sostenere il progetto, preferendo aiutare anche gli Stati membri più deboli nel rimanere parte dell’Unione. Oggi nell’area dell’euro non c’è ancora un accordo su un bilancio centrale ai fini della stabilizzazione o dei trasferimenti fiscali transfrontalieri. E questo pone la questione se l’area monetaria possa mai essere veramente stabile senza un’ulteriore integrazione in questi settori .
Non c’è dubbio che sarebbe un obiettivo finale auspicabile avere una capacità fiscale centrale ai fini della stabilizzazione, poiché le singole aree saranno sempre esposte a shock asimmetrici. Ma tre fattori suggeriscono che potrebbe non essere più una condizione sine qua non. In primo luogo, nel corso del tempo, l’area dell’euro si è gradualmente avvicinata alle altre condizioni ideali che Mundell ha esposto, mitigando in qualche modo la necessità di trasferimenti fiscali. 25 anni di unione economica e monetaria hanno portato a catene di approvvigionamento più integrate e cicli economici più sincronizzati e l’euro può spiegare almeno la metà di quest’aumento complessivo. Allo stesso tempo, mentre la mobilità del lavoro nell’area dell’euro rimane in qualche modo inferiore ai livelli statunitensi, gli studi hanno trovato una convergenza graduale, che riflette sia un calo della migrazione interstatale negli Stati Uniti che un aumento del ruolo della migrazione in Europa. E i canali di condivisione del rischio sono migliorati ulteriormente. Ad esempio, sullo sfondo dell’integrazione del settore bancario – la cosiddetta Unione bancaria – e della generosa assistenza ufficiale, i prestiti transfrontalieri sono stati notevolmente più resilienti durante la pandemia di quanto avessimo visto durante i precedenti grandi shock.

Più l’Europa può avanzare lungo questo percorso – soprattutto in termini di integrazione dei suoi mercati dei capitali – minore sarà la necessità di trasferimenti fiscali permanenti. In secondo luogo, la capacità delle politiche fiscali nazionali di stabilizzare il ciclo è stata rafforzata dal cambiamento delle politiche della banca centrale. Dal 2012, la BCE ha visto negli aumenti ingiustificati degli spread sovrani un impedimento fondamentale alla trasmissione regolare della politica monetaria e ha costantemente sviluppato una serie di strumenti politici per affrontare tali minacce. Quella reazione ha costruito un efficace pavimento sotto i mercati obbligazionari sovrani nel caso in cui gli spread non fossero fondamentalmente giustificati – un piano che si è dimostrato efficace anche quando la posizione della politica monetaria e fiscale non è stata allineata. Ad esempio, i governi dell’area dell’euro sono stati in grado di garantire un notevole stimolo fiscale, con l’area dell’euro che ha trasferito più di 200 miliardi di euro al resto del mondo sotto forma di una tassa sui termini di scambio, per compensare gli effetti della crisi energetica dello scorso inverno, anche se i tassi d’interesse stavano aumentando vertiginosamente e l’economia era in una fase di stallo –
Ciò sarebbe probabilmente stato impossibile un decennio fa, quando anche piccoli aumenti dei tassi si sono rivelati destabilizzanti. Il che suggerisce che qualcosa sia radicalmente cambiato nel modo in cui gli investitori vedono l’area dell’euro e nel margine di manovra che sono disposti a garantire. In terzo luogo, la natura degli shock che stiamo affrontando sta mutando. Con la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina, ci troviamo sempre più di fronte a shock comuni e importati piuttosto che a shock asimmetrici, creati internamente. Ciò sposta il problema dal sostenere gli stati in difficoltà all’affrontare sfide condivise, creando così un diverso allineamento delle preferenze politiche. Come illustrato dall’episodio che ho descritto in precedenza, la condivisione del rischio ciclico è difficile da attuare in Europa perché le preferenze politiche sono gravemente disallineate. Ma per obiettivi condivisi come la salute, la difesa e la transizione climatica, le preferenze politiche si sovrappongono e la necessità di maggiori impegni di spesa è incontrovertibile.

La risposta europea alla pandemia ha riconosciuto questa nuova realtà. Ha costretto l’Europa a centralizzare importanti aree della politica sanitaria, poiché la Commissione si è dimostrata un acquirente di vaccini più efficace di quanto potevano essere i singoli stati. Le restrizioni necessarie per rallentare la diffusione del virus hanno portato anche alla creazione di un fondo comune per sostenere i mercati del lavoro in tutta l’area dell’euro (“SURE”). Infine, l’Europa ha concordato la creazione di un fondo da 750 miliardi di euro (“Next Generation EU”) per sostenere i paesi al fine di affrontare le transizioni verdi e digitali, che richiedono investimenti molto maggiori di quanto i singoli paesi possano permettersi da soli. E così, se il grado di convergenza all’interno dell’area dell’euro è più alto, la frequenza degli shock asimmetrici è minore e il finanziamento comune di obiettivi condivisi aumenta, più rari diventeranno i casi in cui una capacità fiscale sarà davvero necessaria.
La domanda chiave ora è se l’Europa può costruire una strada diversa verso l’unione fiscale. La storia ci insegna che i bilanci comuni sono stati raramente creati quali semplici conseguenza dell’integrazione monetaria, ma piuttosto per raggiungere obiettivi specifici nell’interesse pubblico. Negli Stati Uniti, è stata la guerra di indipendenza che ha prodotto il “momento hamiltoniano” dell’assunzione del debito da parte del governo federale. In Canada e in Germania furono create le prime imposte federali dirette – a parte i dazi doganali – per generare nuove entrate per finanziare la prima guerra mondiale. Fu la necessità di superare la Grande Depressione che portò all’espansione del bilancio federale degli Stati Uniti negli anni ’30. Allo stesso modo, l’Europa non ha mai affrontato – fino ad oggi – così tanti obiettivi sovranazionali condivisi, intendo obiettivi che non possono essere gestiti da Paesi che agiscono da soli. Stiamo attraversando una serie di grandi transizioni che richiederanno ingenti investimenti comuni.

La Commissione europea ha calcolate che le esigenze di investimento per la transizione verde saranno pari a oltre 600 miliardi di euro all’anno fino al 2030 – e tra un quarto e un quinto di questo sforzo dovrà essere finanziato dal settore pubblico. Stiamo anche affrontando una transizione geopolitica, guidata dal disaccoppiamento USA-Cina, in cui per le forniture critiche non è più possibile fare affidamento su paesi ostili. Ciò richiederà un sostanziale riorientamento degli investimenti verso la costruzione di capacità a casa o con i partner. E mai nella storia dell’UE i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà sono stati sfidati tanto quanto lo sono nella guerra in Ucraina. Una conseguenza immediata è che dobbiamo fare una transizione verso una difesa comune europea molto più forte se vogliamo, come minimo, raggiungere l’obiettivo di spesa militare della NATO del 2% del PIL.

Ma allo stato attuale, il costrutto istituzionale dell’Europa non è adatto a realizzare queste transizioni, come rivela un confronto con gli Stati Uniti. Qui, stiamo assistendo allo sviluppo di una nuova attenzione nei confronti della cosiddetta “arte statale”, in cui la spesa federale, i cambiamenti normativi e gli incentivi fiscali si allineano per perseguire gli obiettivi strategici degli Stati Uniti. L’Inflation Reduction Act, ad esempio, accelererà contemporaneamente la spesa verde, attirerà investimenti stranieri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America. Ma l’Europa non dispone di una strategia equivalente per integrare la spesa a livello dell’UE, le norme sugli aiuti di Stato e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio delle regole relative al cambiamento climatico. Una volta scaduto Next Generation EU, non vi è alcuna proposta per uno strumento federale che lo sostituisca per effettuare la necessaria spesa legata al clima. Le norme dell’UE in materia di aiuti di Stato limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale verde. E non abbiamo ritagli nelle nostre regole fiscali per consentire sufficienti investimenti a lungo termine. Senza azione, c’è un serio rischio che non raggiungeremo i nostri obiettivi climatici e che probabilmente perderemo la nostra base industriale a favore di regioni che si impongono meno vincoli.

Questo ci lascia due opzioni. In primo luogo, possiamo alleggerire le norme sugli aiuti di Stato e allentare le norme fiscali, consentendo agli Stati membri di assumersi integralmente l’onere della spesa per gli investimenti. Ma nel processo, creeremo una frammentazione poiché, anche con il maggiore margine di manovra che i mercati stanno concedendo oggi all’area dell’euro, i paesi con più spazio fiscale avranno molto più margine rispetto ad altri. Come abbiamo appreso dall’accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando c’è un obiettivo sovranazionale che i paesi non possono raggiungere da soli. Proprio come l’euro non può essere stabile se gran parte dell’Unione monetaria sta fallendo, il cambiamento climatico non può essere risolto da un paese che riduce le sue emissioni di carbonio più velocemente di un altro. Quindi, questo significa che l’unica opzione che ci consente di raggiungere i nostri obiettivi è la seconda: cogliere questa opportunità per ridefinire l’UE, il suo quadro fiscale e – con l’ulteriore allargamento sul tavolo – il suo processo decisionale, e renderli commisurati alle sfide che dobbiamo affrontare. E si dà il caso che le regole fiscali siano attualmente in discussione.

La principale contraddizione per l’area dell’euro è che ci affidiamo alle regole di bilancio a livello nazionale per raggiungere obiettivi molteplici e diversi. Dato il ruolo cruciale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regole che consentano alla politica anticiclica di rispondere agli shock locali. Abbiamo anche bisogno di regole che facilitino le massicce esigenze di investimento di cui abbiamo bisogno. E dobbiamo garantire la credibilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto di livelli di debito post-pandemia molto elevati. Ma esiste un compromesso intrinseco tra questi obiettivi. Per garantire la credibilità fiscale è necessario che le regole siano più automatiche e contengano meno discrezionalità. Ma poiché nessuna regola può essere adattata a tutte le contingenze future, una maggiore automaticità limiterà sempre la capacità dei governi di reagire a shock imprevisti. Allo stesso modo, regole credibili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Ma il tipo di investimenti di cui abbiamo bisogno oggi implica impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali si estenderanno oltre la vita dei governi che li stanno facendo.

La Commissione europea ha tentato di risolvere questi compromessi proponendo di concentrarsi su una regola di spesa collegata alla traiettoria del debito a medio termine di un paese. Questo rappresenterebbe sicuramente un miglioramento rispetto ai precedenti massimali del disavanzo, in quanto le regole di spesa sarebbero invarianti rispetto alle entrate straordinarie durante le fasi di ripresa, consentendo così il ruolo anticiclico e stabilizzante della politica fiscale quando il ciclo vira. Il percorso della spesa può anche essere aggiustato per i paesi che intraprendono investimenti allungando il periodo fino a quando la traiettoria del debito deve iniziare a diminuire. Ma tutto ciò avverrà inevitabilmente al prezzo dell’automaticità e, forse, dell’applicabilità. Quindi, se guardiamo più avanti, dobbiamo riconoscere che regole fiscali veramente credibili non possono funzionare senza un equivalente ripensamento del luogo in cui dovrebbero risiedere i poteri fiscali. Poiché le regole automatiche rappresentano una devoluzione di poteri al centro, possono funzionare solo se sono accompagnate da un maggior grado di spesa da parte del centro.

Questo è in linea di massima ciò che vediamo negli Stati Uniti, dove la devoluzione dei poteri al governo federale rende possibili regole fiscali sostanzialmente inflessibili per gli stati. I bilanci in pareggio a livello statale sono credibili proprio grazie ai trasferimenti fiscali e alla spesa federale per progetti comuni, che possono far fronte a shock imprevisti e finanziare obiettivi condivisi. L’area dell’euro probabilmente non replicherà mai per intero questa struttura, data la dimensione molto maggiore dei bilanci nazionali rispetto a quelli degli stati americani. Ma ci sono buone ragioni per cui avrebbe senso importare alcuni elementi. In primo luogo, se dovessimo ritagliarci e federalizzare parte della spesa per investimenti necessaria per obiettivi condivisi, utilizzeremmo il nostro spazio fiscale in modo più efficiente.
Lo spazio fiscale asimmetrico dell’Europa – con alcuni in grado di spendere molto più di altri – è fondamentalmente uno spreco quando si tratta di obiettivi condivisi come il clima e la difesa. Se alcuni paesi possono spendere liberamente per questi obiettivi ma altri no, allora l’impatto di tutta la spesa è inferiore, poiché nessuno è in grado di raggiungere da solo gli obiettivi climatici o la sicurezza militare. In secondo luogo, l’emissione di un debito comune per finanziare questo investimento amplierebbe potenzialmente lo spazio fiscale collettivo che abbiamo a disposizione. I costi di finanziamento dell’UE sono inferiori ai costi di prestito medi ponderati dei suoi Stati membri e sono quasi identici a quelli del meccanismo di finanziamento istituito durante la crisi, il MES – nonostante quest’ultimo potesse utilizzare il capitale versato, per riacquistare il 70% delle sue obbligazioni al valore nominale. Ciò suggerisce che gli investitori ripongono una fiducia significativa nella capacità dell’UE di estrarre da ciascun paese partecipante il futuro flusso di entrate necessarie per servire il debito sottostante. E questo a sua volta implica un potenziale non sfruttato per l’UE di intermediare il debito e ridurre i costi del prestito aggregato dell’Unione.

Ma elevare più compiti a livello federale richiederebbe più fiducia tra gli Stati membri nella capacità e nell’integrità di spendere fondi congiunti da parte delle autorità nazionali, poiché gran parte dell’attuazione avverrebbe ancora a livello nazionale. E richiederebbe un cambiamento proporzionato nelle nostre regole fiscali in direzione di una minore flessibilità. Emettere più debito dell’UE ridurrebbe, a parità di condizioni, la capacità fiscale per il servizio del debito nazionale. Ciò significa che, come minimo, dovremmo garantire che gli Stati membri con un debito elevato utilizzino lo spazio fiscale creato dalla spesa comune per migliorare le loro prospettive fiscali, una parte del quale dovrebbe derivare dagli effetti di una crescita positiva. Per ora, ci sono limiti a quanto possiamo spingerci in questa direzione, anche perché il costo del prestito dell’Unione è ancora superiore a quello dei suoi membri più forti, il che significa che un prestito più comune può essere visto come una forma di trasferimento fiscale non autorizzato.

Il punto di partenza di qualsiasi futura modifica del Trattato deve essere il riconoscimento del numero crescente di obiettivi condivisi e della necessità di finanziarli insieme, il che a sua volta richiede una diversa forma di rappresentanza e un processo decisionale centralizzato. Quindi, un passaggio a regole più automatiche diventerebbe più realistico. Credo che gli europei siano più pronti rispetto a vent’anni fa a intraprendere questa strada, perché oggi hanno davvero solo tre opzioni: paralisi, uscita o integrazione. I sondaggi dicono chiaramente che i cittadini avvertono un crescente senso di minaccia esterna, anche dopo l’invasione russa, che rende la paralisi sempre più inaccettabile. La causa dell’uscita è passata dalla teoria alla realtà con la Brexit e, mentre i vantaggi dell’uscita dall’UE appaiono altamente incerti, i costi sono fin troppo visibili. E così, con la paralisi e l’uscita che sembrano poco attraenti, i costi relativi di un’ulteriore integrazione sono ora inferiori.
In questo momento della storia, non possiamo stare fermi o – come la bicicletta di Jean Monnet – cadremo. Le strategie che avevano assicurato la nostra prosperità e sicurezza in passato – la dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza, dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia – oggi sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. Le sfide del cambiamento climatico e della migrazione non fanno che aumentare il senso di urgenza per migliorare la capacità di agire dell’Europa. Non saremo in grado di costruire tale capacità senza rivedere il quadro fiscale europeo, e ho cercato di delineare le direzioni che questo cambiamento potrebbe prendere. Ma alla fine la guerra in Ucraina ha ridefinito più profondamente la nostra Unione – non solo nella sua appartenenza, e non solo nei suoi obiettivi condivisi, ma anche nella consapevolezza che ha creato che il nostro futuro è interamente nelle nostre mani – e in noi.

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