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Di malware in peggio. La Cina vuole colpire l’esercito americano?

Washington denuncia l’esistenza di un virus made in China nascosto nella sua rete di collegamenti militari. L’attivazione di questo malware causerebbe danni logistici importanti alle forze armate Usa, riducendone le capacità d’intervento. Ma le finalità non sono ancora ben chiare

Ticking time bomb”, una bomba a orologeria. Così un esponente dell’amministrazione Biden si riferisce al malware che l’amministrazione statunitense ritiene essere nascosto all’interno dei network delle forze armate Usa. Secondo quanto riportato dal New York Times, il malware in questione sarebbe teoricamente capace di interferire con il corretto funzionamento di reti elettriche, sistemi di comunicazione e forniture idriche, rallentando le operazioni di schieramento e di rifornimento dell’apparato militare di Washington in caso di escalation, e quindi di limitarne l’efficacia militare generale. E non si esclude che la portata del virus possa superare i confini del dominio militare ed intaccare anche le infrastrutture civili.

Danni di portata devastante che questo fantomatico software potrebbe causare con estrema rapidità al momento “giusto”, ovvero in concomitanza con eventi di altro tipo che richiederebbero un intervento militare americano. Come un’ipotetica invasione dell’isola di Taiwan, considerando che le fonti del governo puntano il dito contro attori legati alla Repubblica Popolare Cinese. E il contesto combacerebbe in maniere perfetta: rallentare il dispiegamento militare americano di qualche giorno o settimana potrebbe dare alla Cina una finestra in cui sarebbe più facile prendere il controllo dell’isola con la forza, per poi presentare all’Occidente la sua occupazione come un fait accompli.

Le stesse fonti governative confermano che le operazioni di setaccio sono in corso già da tempo, e che è proprio grazie a queste operazioni che ci si è resi conto dell’effettiva portata della minaccia. La scoperta di una stringa di codice sospetta nei computer della base militare Usa di Guam risalente al maggio di quest’anno è stato infatti il primo campanello d’allarme che ha portato all’avvio delle indagini attualmente in corso.

Ma altrettanto allarmante risulta il fatto che le operazioni cyber cinesi, responsabili dell’introduzione di questo malware nei sistemi statunitensi, risalissero ad almeno un anno prima. Un lasso di tempo enorme, durante il quale il virus è rimasto nascosto tra i codici cibernetici, ma che sarebbe potuto entrare in azione se le circostanze lo avessero richiesto.

La scoperta di questo virus ha causato reazioni nell’amministrazione americana. Mentre la Casa Bianca organizzava appositi meeting con esponenti del National Security Council, dell’Homeland Security Department e del Pentagono, altri rappresentanti dell’organizzazione informavano direttamente membri del parlamento, governatori e compagnie del settore sugli sviluppi della situazione.

Rimane tuttavia il dubbio sulle effettive intenzioni dietro al rilascio del malware, che secondo alcuni esperti potrebbe non essere stato installato per i suoi effetti puramente militari. Mentre alcuni sostengono che questa manovra sia un gesto di “signaling”, volto a dimostrare agli Stati Uniti la risolutezza di Pechino in un eventuale confronto, altri sostengono che il vero pericolo rappresentato dal virus sarebbe legato al fronte interno: davanti alle concrete conseguenze, e sapendo che altri attacchi simili sarebbero seguire, l’opinione pubblica americana potrebbe rifiutare nettamente un coinvolgimento militare per una questione “lontana” come Taiwan.

Sicuramente, la rivelazione dell’esistenza di questo codice avviene in un momento molto delicato. Dopo aver cercato una distensione diplomatica, gli Stati Uniti stanno adesso adottando un approccio di pressione verso Pechino. Il caso della partecipazione del leader di Hong Kong al summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation si incastra perfettamente in questo contesto. Così come lo fa la notizia della diffusione del malware apparentemente made-in-China.

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