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Politica estera, a Meloni conviene una narrazione coerente con la nuova linea. Scrive Cangini

L’europeismo dimostrato dal premier, così come il legame sempre più solido con gli Stati Uniti segnano un cambio di rotta non scontato vista la cultura politica da cui proviene Meloni. Questa nuova fase sta creando qualche dissapore a destra. Ed è per questo che le converrebbe accompagnare l’oggettivo cambio di linea politica con una narrazione culturale e identitaria coerente. Il corsivo di Cangini

L’europeismo è ormai un dato acquisito. Non meno del governo Draghi, il governo Meloni è stato alle regole europee e quando ha avvertito la necessità di rinegoziare alcuni obiettivi del Pnrr l’ha fatto senza toni demagogici, ma esibendo un sano approccio realista. Per paradossale che possa apparire, la miglior testimonianza del fatto che Giorgia Meloni sia entrata a pieno titolo del club europeo e ne rispetti lo statuto e l’etichetta risiede nel rapporto particolare che è riuscita a creare con Ursula von der Leyen. Non era scontato.

Non era scontato perché Fratelli d’Italia viene da un decennio di retorica anti europea e perché nel luglio del 2019 il partito non contribuì ad eleggere la von der Leyen presidente della Commissione europea. Anzi, i dirigenti del partito di Giorgia Meloni spararono ad alzo zero contro quell’elezione, e nella cosiddetta “maggioranza Ursula” videro un intollerabile “inciucio” tra popolari e socialdemocratici, con l’aggiunta dei grillini. Acqua passata.

Ancor più acqua è passata sotto i ponti dell’antiamericanismo d’un tempo. Il granitico sostegno alle ragioni della Nato in Ucraina precede le scorse elezioni, e da quando è presidente del Consiglio Giorgia Meloni non è arretrata di un millimetro. La visita a Washington ha dunque rappresentato il sugello di una politica di governo ormai acquisita. “Dopo gli abbracci con Biden possiamo dire che è nata una Meloni atlantica, come tale pronta ad essere riconosciuta quale leader di una destra conservatrice, ma non più di una destra estrema ed equivoca sulle scelte di politica estera”, ha scritto Stefano Folli. E non c’è dubbio che così sia.

Lo scorso gennaio, su Formiche.net mettemmo Giorgia Meloni in guardia dal rischio che la nuova linea di politica internazionale alimentasse la nascita di, per usare un’espressione in vigore a sinistra, “un nemico a destra”. Allora, il malumore fu manifestato dall’intellettuale Marcello Veneziani, che su Panorama si domandava retoricamente “quando Giorgia Meloni farà qualcosa di destra?”. “Con abili slalom – scriveva Veneziani – Meloni ha cambiato la traiettoria lineare da cui era partita quando era all’opposizione e ha inanellato una serie di slalom che l’hanno condotta alla meta: paletti atlantici e militari made in Nato, paletti europei da osservare, paletti economici ereditati da Draghi”. Non intendeva essere un complimento.

Nei giorni scorsi è stato il turno dell’ex ministro e sindaco di Roma Gianni Alemanno, che per l’occasione ha rispolverato un antiamericanismo (e un anti liberalismo) da anni Settanta. La minaccia rappresentata da queste prime contestazioni è limitata. Ma Giorgia Meloni sa bene che argomenti del genere vengono utilizzati anche da una parte dei suoi eletti. Per ora il dissenso è silente, grazie anche agli oggetti successi che la presidente di FdI sta mietendo in veste di presidente del Consiglio. Ma la Fortuna è una dea volubile, prima o poi cambia sempre rotta. Ed è per questo che a Giorgia Meloni converrebbe accompagnare l’oggettivo cambio di linea politica con una narrazione culturale e identitaria coerenti. Meglio farlo oggi, quando ha il vento in poppa, che rischiare di doverlo fare in fase di bonaccia.



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