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Non occorre essere neofascisti per coltivare il dubbio sulla sentenza di Bologna

A sollevare dubbi sulla fondatezza della sentenza di condanna di Giusva Fioravanti e degli altri neofascisti sono prevalentemente giornalisti e intellettuali di sinistra. E non da oggi, ma da decenni. E Cossiga, nel libro-intervista del 2010, spiegò così la famigerata tesi palestinese… Il corsivo di Andrea Cangini

Riscrivere la storia a proprio uso e consumo, ripulire l’anima nera del neofascismo italiano: sono queste le accuse che buona parte dei commentatori e la totalità delle opposizioni levano alla destra di governo. Si parla della strage di Bologna, naturalmente. Ma nell’impianto polemico-accusatorio c’è qualcosa che non torna. Per esempio il fatto che a sollevare dubbi sulla fondatezza della sentenza di condanna di Giusva Fioravanti e degli altri neofascisti sono prevalentemente giornalisti e intellettuali di sinistra. E non da oggi, ma da decenni.

Questa mattina ero ad Omnibus, su La7, e un giornalista vicino al Movimento 5stelle ha accusato chiunque sollevasse una qualche perplessità sulla verità giudiziaria della strage di Bologna di essere parte di un fantomatico complotto dal titolo “Centro neutro” ordito dal fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Peccato che la tesi era stata appena sostenuta in studio da Andrea Colombo. Non un pericoloso nostalgico del Duce, ma un giornalista del Manifesto, già collaboratore del gruppo di Rifondazione comunista alla Camera, autore nel 2007 di “Storia nera. Bologna, la verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti”.

Colombo ha studiato le carte, sostiene che la sentenza di condanna per la strage di Bologna non sia suffragata da alcuna prova, tende ad accreditare la pista palestinese. Come lui, la pensano i molti intellettuali di sinistra che trent’anni fa firmarono l’appello “E se fossero innocenti?”. C’erano Sandro Curzi, Luigi Manconi, Furio Colombo… Dubbi analoghi furono sollevati dallo storico Nicola Tranfaglia e da diversi magistrati che indagarono sulla strage di Ustica e su quella di Piazza Fontana. Lo pensava anche il presidente emerito della repubblica Francesco Cossiga.

In un libro intervista (“Fotti il potere, gli arcana della politica e dell’umana natura”) che pubblicammo poco prima della sua morte, nel 2010, Cossiga la mise così: «Sono convinto che la verità fosse quella emersa nella prima sentenza di assoluzione degli imputati: ho motivo di credere, insomma, che quell’esplosione fu casuale. Qualche guerrigliero palestinese, in ottemperanza dell’accordo segreto stretto da Aldo Moro con l’Olp, stava trasportando esplosivo e l’esplosivo, disgraziatamente, gli scoppiò in mano».

Ma ai tempi del processo di Bologna il cosiddetto lodo Moro era un tabù. Non si poteva né si doveva parlare dell’accordo sottoscritto dalla Democrazia Cristiana di Moro con l’Olp di Arafat in base al quale i terroristi palestinesi poterono usare l’Italia come rifugio personale, base logistica e deposito di armi. Un patto di non belligeranza che lo Stato italiano sottoscrisse attraverso il colonnello dei servizi segreti militari (Sismi) Stefano Giovannone, di stanza a Beirut.

Personalmente, non ho in mano elementi tali da farmi dire con certezza che la pista palestinese sia quella esatta. Mi sembra, però, che vi siano elementi sufficienti per mettere in dubbio la verità giudiziaria e per dire con indiscutibile certezza che non occorre essere neofascisti per coltivare tale dubbio.



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