Gli Usa mandano i Marines nel Golfo. Deterrenza davanti alle minacce ai traffici commerciali (pensando all’Iran), rassicurazioni per gli alleati (Arabia Saudita ed Emirati), dimostrazione con i rivali (Cina e Russia)
Un contingente di oltre 3.000 tra Marines e personale logistico statunitense è in arrivo nei prossimi giorni nella regione del Golfo, con l’amministrazione Biden che in parte valuta nuove opzioni per dissuadere l’Iran dal sequestrare navi cisterna commerciali lungo le vie d’acqua dell’area, e in parte pensa all’invio di questo nuovo contingente come necessità di carattere strategico davanti all’aumento dell’assertività politica nella regione di potenze come Cina e Russia.
Non solo la 26th Meu in Bahrein
La 26esima Unità di Spedizione dei Marine (26th Meu), insieme a un gruppo Amphibious Ready guidato dalla USS Bataan (con a bordo aerei da assalto Osprey e da attacco Harrier e F-35B) e accompagnato dalla nave da sbarco USS Carter Hall, fornirà “maggiore flessibilità e capacità marittima” alla 5a Flotta americana — che ha sede in Bahrain. Il Pentagono non ha chiarito come intende impiegare i Marines, ma il loro arrivo fa parte di un più ampio accumulo di forze statunitensi nella regione, che i funzionari della difesa da Washington descrivono innanzitutto come una risposta ai rinnovati tentativi dell’Iran di sequestrare petroliere commerciali.
Probabilmente i militari verranno posizionati sui ponti delle navi commerciali che solcano quelle acque. Si tratta di una presenza tattica simile alle attività anti/pirateria. Il piano, redatto dal CentCom, ha però dei limiti legali da superare, sia negli Usa che all’esterno. Richiede infatti il consenso dei governi regionali e delle società private. Inoltre i militari americani dovrebbero essere schierati come agenti di sicurezza su navi di terze parti straniere e hanno quindi bisogno di particolari regole di ingaggio.
L’aumento della presenza americana nella regione del Golfo riguarda anche una dozzina di F-35 statunitensi, così come aerei F-16 e A-10 – questi ultimi, in dotazione alla US Navy, possono essere usati per attacchi contro imbarcazioni rapide come i barchini dei Pasdaran, in missioni di supporto aereo ravvicinato ai Marines. Nelle ultime settimane e mesi questi nuovi assetti americani sono stati acquartierati nelle basi regionali per aumentare le pattuglie congiunte dentro e intorno allo stretto di Hormuz.
Occhi sull’Iran
Teheran ha intensificato i suoi tentativi di sequestrare navi commerciali nei corsi d’acqua del Golfo negli ultimi mesi, anche come risposta aggressiva alla confisca da parte del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di una petroliera battente bandiera delle Isole Marshall, la Suez Rajan, che trasportava carburante iraniano in Cina. Era aprile. Il mese scorso, una nave della marina iraniana ha aperto il fuoco su una petroliera charter della Chevron nelle acque internazionali al largo della costa dell’Oman, dopo che la nave civile aveva rifiutato gli ordini di fermarsi.
La marina iraniana e il Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica (i Pasdaran) hanno “molestato” (termine usato nei comunicati del Pentagono) almeno venti petroliere nella regione negli ultimi due anni, secondo i numeri della Quinta Flotta. Queste attività hanno prodotto critiche da parte degli alleati americani nella regione. Su tutti sauditi ed emiratini, che sono particolarmente interessati alla stabilità delle rotte commerciali. La scarsa attenzione americana percepita da quegli alleati rientra in un quadro di perdita di fiducia generale negli Stati Uniti, visti da Riad e Abu Dhabi come disimpegnati perché con meno interessi diretti alla regione (specie al suo mercato energetico).
Ecco perché, indipendentemente da come deciderà l’uso l’amministrazione Biden, l’annunciato dispiegamento di un gruppo di spedizione marino anfibio segna una dimostrazione di forza e presenza. Messaggi di avvertimento non sottile a Teheran, ma anche su rassicurazione verso Riad e Abu Dhabi.
Il momento e il contesto
Il dispiegamento di unità come le Meu non sono una novità nella regione, ma in questa situazione è il contesto che conta. Innanzitutto, arriva con l’avvicinarsi della scadenza, tra pochi mesi, per la scadenza delle sanzioni delle Nazioni Unite contro l’Iran legate all’accordo nucleare del 2015. Sebbene Washington e Teheran non aderiscano più ai termini dell’accordo nucleare del 2015, alcuni dei suoi elementi sono continuati sul pilota automatico, ma il 18 ottobre anche queste scadranno e il (non) rinnovo produrrà altre tensioni.
L’esito delle comunicazioni di backchannel di cui funzionari statunitensi e iraniani hanno parlato ai giornali rimane poco chiaro. L’ipotesi d’un mini-accordo, per diluire le scorte arricchite di Teheran e lavorare verso una de-escalation generale nella regione, non è ancora del tutto decaduta. Ma per ora non ci sono esiti, e anzi si assiste a nuove posture e posizionamenti.
La scorsa settimana, i Pasdaran hanno tenuto un’esercitazione militare sulle isole contestate con gli Emirati Arabi Uniti, dopo che sia la Russia che la Cina sembravano schierarsi con il Consiglio di cooperazione del Golfo sulla pretesa di Abu Dhabi riguardo alle isole. Il ministero della Difesa iraniano alla fine del mese scorso ha affermato di aver svelato il primo missile balistico navale a lungo raggio prodotto in serie nel Paese. L’arma è presumibilmente in grado di colpire in modo pesante le portaerei (americane).
Chi provvede alla sicurezza
Se il confronto con l’Iran ha una valore diretto strategicamente poco rilevante, per Washington l’aspetto centrale riguarda gli equilibri con gli attori regionali e le potenze esterne. “La presenza militare del governo degli Stati Uniti nella regione non ha mai creato sicurezza”, ha detto lunedì il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, aggiunge che Teheran è profondamente convinta che i paesi del Golfo Persico siano in grado di garantire la propria sicurezza”.
Questo messaggio è diretto a Raid e Abu Dhabi, che per anni hanno richiesto la copertura securitaria statunitense davanti all’Iran. Ora Teheran ha avviato un processo di normalizzazione dei rapporti con entrambi i regni sunniti, e vuole assicurare correttezza in queste relazioni. Ma il problema è nella fiducia, che manca reciprocamente, anche perché all’interno della Repubblica islamica ci sono corpi politici-economici-sociali-militari che si muovono contro le normalizzazioni – come i Pasdaran, che capitalizzano da un persistente scontro a bassa intensità. Entità simili ci sono anche nelle corti saudite ed emiratine.
C’è anche un altro aspetto: Washington ha risposto, dopo tempo, alle richieste degli alleati anche perché potrebbe aver percepito la necessità di aumentare ulteriormente la propria impronta davanti all’aumento dell’assertività di attori rivali. Se infatti la Russia ha rapporti con l’Iran, e dunque per Arabia Saudita ed Emirati è un attore da tenere in considerazione come sponda ma poco di più (visto anche la situazione ucraina), il problema per gli Usa è la Cina. Finora Pechino si è mossa nel Golfo come potenza commerciale (ed economico-finanziaria), ma non è detto che in futuro cambi postura iniziando passi da security provider. D’altronde, esercitazioni congiunte come quelle con gli Emirati nello Xinjiang potrebbero essere ospitate anche nella regione mediorientale. E dunque, da una parte gli Usa potrebbero essere contenti di attirare il coinvolgimento cinese nel Golfo, distrazione da altri quadranti (come l’Indo Pacifico); dall’altra questo farebbe perdere all’America eccezionalità e priorità nei rapporti con potenze globali emergenti come Riad e Abu Dhabi.