La componente ideologica rischia di minare il confronto tra minoranza e premier sul salario minimo. Meloni avrà un approccio dialogico, ma non a scapito del dialogo con i corpi sociali che rispettano il governo perché non hanno pregiudizi verso di esso
Che la strada fosse in salita era ampiamente prevedibile. Il terreno è insidioso e il tema al centro del confronto tra il premier Giorgia Meloni e gli esponenti delle opposizioni, è caldissimo. Il salario minimo. Da una primo muro contro muro, anche grazie alla mediazione del leader di Azione, Carlo Calenda, si è arrivati per lo meno a un confronto de visu sul tema, in programma venerdì 11 agosto. Sul fatto, però, che si possa arrivare a un punto di compromesso c’è più di una riserva. La vede così l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi.
Le opposizioni domani incontreranno il premier Meloni per confrontarsi sul tema del salario minimo, al centro da diversi mesi di un lungo dibattito. Che esito prevede?
Che non ci sarà accordo perché le opposizioni insisteranno con la cifra fissa, la quale corrisponde al persistere della ideologia egualitarista. Tutti appiattiti sul salario minimo orario di fonte legislativa.
Se per il centrosinistra quello del salario è un tema identitario, per il centrodestra vale l’esatto opposto. Quale potrebbe essere, secondo lei, il punto di caduta su cui trovare un accordo?
Ribadisco che non esiste se le opposizioni rimangono bloccate sulla cifra fissa. Il governo è naturalmente portato ad ascoltare la Cisl, la Ugl e tutte le organizzazioni di impresa, dai commercianti agli artigiani, ai coltivatori, agli industriali. Ovvero, potrebbe fare una norma per garantire il rispetto da parte di tutti i datori di lavoro dei trattamenti economici complessivi essenziali del contratto più applicato nel settore più prossimo all’impresa.
Quale deve essere l’approccio di Meloni nei confronti della minoranza in questo frangente?
Dialogante ma non a scapito del dialogo con i corpi sociali che rispettano il governo perché non hanno pregiudizi verso di esso.
In molti dei Paesi dell’Eurozona esiste già una forma di minimo salariale. Qual è secondo lei il principale motivo di avversione dell’esecutivo a questa misura?
Il salario minimo di legge esiste in Paesi ove la contrattazione collettiva è meno diffusa e perciò meno tutelante i lavoratori. La direttiva europea infatti chiede il salario minimo proprio in questi casi.
Per molti la scelta migliore per garantire maggiore potere d’acquisto ai dipendenti sarebbe intervenire sul taglio al cuneo fiscale e allargare la contrattazione collettiva. Sono, secondo lei, due percorsi che non si possono in qualche misura integrare fra loro?
Il cuneo va certamente ridotto strutturalmente per i contributi non previdenziali e per il prelievo fiscale la cui progressività deve essere sostituita dalla aliquota piatta al 5% e definitiva per tutte le erogazioni aziendali e territoriali. Così si incoraggia la contrattazione di prossimità e i salari finalmente crescono ovunque gli andamenti dell’impresa lo consentono uscendo dalla trappola egualitarista dei contratti nazionali.