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Le accese polemiche sul salario minimo con poca cognizione di causa. Scrive Zecchini

L’adozione per ragioni di dignità o equità sociale di una soglia legale per i salari, non presenta motivazioni economiche cogenti. Anzi, può essere sostituita da altri interventi di pari efficacia, anche perché è soggetta a grandi margini di incertezza. Il commento di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Sulle ultime proposte d’introduzione per legge del salario minimo a nove o a dieci euro per ogni ora di lavoro si è sviluppato un dibattito acceso, che ha più i connotati di polemiche di tono populista che di esame serio dei pro e dei contro di tale misura. Per i sostenitori deve prevalere l’esigenza di equità nell’assicurare una retribuzione dignitosa a chi lavora e contrastare il lavoro sottopagato. Per i non convinti della bontà di questa strada, vi sono altri meccanismi che possono assicurare un analogo risultato senza presentare effetti controproducenti.

Come spesso accade, le discussioni poggiano su una scarsa conoscenza delle implicazioni dell’una e dell’altra opzione, ma si fa riferimento alle dichiarazioni di protagonisti della vita economica o politica senza una base di conoscenza approfondita. Sul tema si è accumulata nel corso degli anni un’imponente letteratura che riguarda tanto le maggiori economie quanto quelle in via di sviluppo, mentre per l’Italia l’Istat ha fornito nell’ultima audizione in Parlamento una serie di dati e considerazioni a supporto delle decisioni parlamentari. Il primo problema che si incontra, anche nel documento dell’Istat, consiste nel mescolare insieme esigenze diverse assunte come obiettivi impliciti nell’adozione del “minimo” per legge.

Lo considera, in sostanza, sotto i profili di strumento per contrastare il lavoro sottopagato, per ridurre i divari salariali per alcune categorie di occupati, per contrastare la precarietà di molti rapporti di lavoro, per affrontare la povertà e anche per sospingere la dinamica salariale nel tempo, particolarmente in anni di elevata inflazione. In realtà, sono esigenze differenti che non è possibile soddisfare con lo stesso strumento del “salario minimo” fissato a un livello che sia adeguato per i cinque obiettivi senza determinare conseguenze negative e distorsioni in termini di occupazione, reazioni delle imprese, finanza pubblica e funzionamento del mercato del lavoro. Ognuna di queste esigenze richiede, invece, strumenti appropriati in coerenza con gli altri interventi, che determinano in un insieme di complementarità l’assetto nazionale della contrattazione del lavoro.

Assumendo come fine precipuo l’esigenza di giustizia sociale nel fissare un limite dignitoso di retribuzione sotto il quale non si può scendere, bisogna chiedersi se rappresenta lo strumento più adatto. Nel Paese la contrattazione collettiva, che assicura un minimo retributivo, nel 2019 copriva il 77% degli occupati in posizione di lavoro dipendente. Per un’analisi più puntuale, secondo l’Istat nello stesso anno i rapporti di lavoro con retribuzione oraria inferiore a 9 euro ammontavano al 18,2% (3,6 milioni) e riguardavano 3,1 milioni di lavoratori, escludendo gli apprendisti. Se si eleva il minimo a 10 euro, la quota di rapporti sale al 30,6% (oltre 6 milioni), interessando 5,2 milioni di occupati.

La bassa retribuzione annuale, come ricorda l’Istat, è la risultante sia del minimo salariale, sia della quantità di ore lavorate, sia della durata del rapporto. Non si può, quindi, sostenere che la fissazione di una soglia minima sia sufficiente a garantire un reddito dignitoso al lavoratore. Vanno, pertanto, esplorate le varie ragioni del fenomeno e soprattutto quale platea di individui è interessata. L’Istat lo fa guardando ai lavoratori non-standard, ovvero quelli non a tempo pieno ed indeterminato, che rappresentano circa 5 milioni di occupati (21%). Molto significativa la loro composizione, perché si concentrano tra i giovani sotto i 35 anni per circa il 40%, gli stranieri (33,5%), quelli a basso livello d’istruzione (25% circa), i lavori poco qualificati, le donne e il Mezzogiorno (27,3%).

Una gamma molto composita, che funge da snodo di flessibilità in un mercato del lavoro, in cui non sarebbe facile inserirli in rapporti standard in ragione probabilmente o della performance nel confronto con gli altri, o dell’eccedenza dell’offerta di queste prestazioni rispetto alla domanda delle imprese, o per la preferenza del lavoratore stesso per il part-time o altre forme di rapporto. Non andrebbero neanche esclusi dall’analisi quanti non partecipano al mondo del lavoro, gli inattivi tra 15 e 64 anni che costituiscono una componente consistente (33,5% della popolazione in età lavorativa) e si regge sul sistema del welfare pubblico e familiare, ma non contribuisce alla formazione del reddito nazionale. Basterebbe porre il salario minimo a 9 o a 10 euro per incentivarli a entrare nel mercato del lavoro e non accontentarsi del welfare a cui si appoggiano rifiutando un lavoro?

Probabilmente la risposta sarebbe molto incerta non conoscendo quale sia il salario “di riserva” che ciascun inattivo richiede per accettare un lavoro. L’Istat calcola che con la soglia a 9 euro l’incremento retributivo annuale sarebbe in media dello 0,9% per rapporto di lavoro o del 14% per lavoratore, ma con notevoli differenze. Sarebbe, in specie, più consistente per gli occupati a più basso salario del comparto degli altri servizi (20,2%), gli apprendisti (21,8%), i giovani sotto i 30 anni (18%), ma solo del 15% per i lavoratori delle isole meridionali. Maggiori gli aumenti con la soglia a 10 euro: in media 18,3% per occupato con un ventaglio dal 29% al 18,5% rispettivamente per le stesse tipologie. Va ricordato che vi è un divario tra rapporti e lavoratori perché questi ultimi possono impegnarsi in più di un rapporto. L’incremento medio per rapporto, se si lavorasse per un anno intero, sarebbe per le due soglie rispettivamente di circa 804 euro e 1069 euro.

Al tempo stesso, l’incremento effettivo di reddito potrebbe risultare inferiore se il lavoratore dovesse sostenere un maggior carico fiscale e perdesse alcune provvidenze del welfare. L’adozione del salario minimo va, pertanto, coordinata con gli aspetti sia della tassazione, sia delle sovvenzioni sociali che si andrebbe a perdere. Rimane da stabilire se il livello della soglia di retribuzione a 9 o 10 euro si possa considerare rispondente all’obiettivo di giustizia sociale e se la rispondenza valga su tutto il territorio nazionale alla luce degli ampi differenziali di potere di acquisto esistenti tra aree, lasciando da parte le differenze tra mansioni (usuranti e non). L’Istat assume come soglia, sotto la quale una retribuzione si considera bassa, al livello del 60% della mediana della distribuzione.

Seguendo questo criterio, le due soglie minime proposte si collocherebbero rispettivamente al 70% e 78% della mediana dei contratti collettivi nazionali, in particolare a quote meno alte nell’industria (67,2%-74,6%) rispetto ai servizi (90,9%-101%). Non vi è, tuttavia, un criterio univoco per stabilire l’adeguatezza dei livelli proposti rispetto all’obiettivo. Le disparità sussistono anche nel potere di acquisto dei due livelli. Nel 2021 nelle regioni del Nord i prezzi al consumo erano molto più elevati che nel Mezzogiorno, con divari ad esempio tra Lombardia (più del 5% sopra la media nazionale) e Campania (meno del 9,5% della media) che raggiungevano quasi il 15%. Equità vorrebbe che il salario minimo fosse a parità di carovita e quindi differenziato tra regioni. Pertanto, occorrono analisi più puntuali per stabilire quale dovrebbe essere un minimo di equa retribuzione per la platea degli italiani.

Le soglie retributive proposte, comunque, aumenterebbero il costo per le imprese, stimato dall’Istat rispettivamente tra 2,8 miliardi e 6,4 miliardi, con conseguenze diverse su più fronti. Per le aziende al margine della competitività si genera un incentivo o ad andare nel sommerso, o ad innalzare i prezzi, o a uscire dal mercato. Per le microimprese (meno di 10 dipendenti), che sono quelle in cui si concentra il lavoro sottopagato (più del 40%), tutte e tre le opzioni sono possibili e l’esito alla fine dipende soprattutto dalle prospettive di redditività a seguito del rincaro dei costi. L’esistenza di molte di queste imprese, in realtà, è legata alla possibilità di applicare retribuzioni ridotte a quanti sono disposti ad accettarle in mancanza di migliori opportunità di lavoro. In tale funzione, offrono un’occupazione a quanti altrimenti rimarrebbero fuori dal mercato del lavoro.

Nondimeno, l’effetto delle soglie proposte sull’occupazione va verificato nella realtà effettiva e non seguendo teorie. Infatti, secondo la corrente di pensiero cosiddetta neoclassica, dovrebbe risultarne una diminuzione dell’occupazione, ma nelle verifiche empiriche per diversi paesi non si riscontra un impatto negativo e può, persino, determinarsi un lieve aumento. In quest’ultimo caso, una delle cause può consistere nello stimolo che il maggior salario dà al lavoratore ad impegnarsi più intensamente nelle prestazioni, ad accrescere la produttività e a ridurre il rischio di dismissione o di un impiego ridotto.

Parimenti, si potrebbe obiettare che se è sicuro che il compenso non possa scendere sotto la soglia e il rischio di dismissione sia basso, potrebbe condizionare il maggior impegno a ricompense aggiuntive sopra-soglia. Si può quindi concludere che l’impatto sull’occupazione è tendenzialmente incerto o neutrale. La dinamica della produttività potrebbe, ad ogni modo, trarne beneficio anche nel caso in cui, di fronte al maggior costo del lavoro, l’impresa si impegnasse a investire nella formazione del lavoratore e nelle tecnologie per elevarne la performance. Non può di contro trascurarsi un possibile effetto di sostituzione del lavoro con maggiore automazione, specialmente per le mansioni meno qualificate.

Ben più importante è l’effetto sul ventaglio salariale e sul ruolo della contrattazione collettiva. Indubbiamente, col salario minimo si ridurrebbero i dislivelli retributivi per alcune categorie, quali le donne, le basse qualifiche e i giovani, con ripercussioni positive sulla loro dignità lavorativa e anche sui loro consumi. L’appiattimento dei salari che ne risulterebbe andrebbe, peraltro, contro l’esigenza di ricompensare meglio le differenze di merito, di qualifiche e di rendimento. Potrebbe, quindi, innescarsi una richiesta di incrementi da parte degli altri lavoratori per ottenere una comparativamente giusta ricompensa. Si produrrebbe, in altri termini, o una spinta salariale con ripercussioni sui prezzi, o un effetto negativo sulla rispondenza del salario alla produttività, come risultato dell’appiattimento. Non si può nemmeno escludere che le imprese potrebbero vedere nel salario minimo un traguardo a cui avvicinare tutte le retribuzioni, giovandosi della tendenza all’appiattimento verso i minimi.

La stessa contrattazione salariale a livello nazionale e aziendale ne sarebbe condizionata. Una soglia salariale relativamente alta, in particolare se indicizzata all’inflazione annua, tenderebbe a spiazzare la contrattazione collettiva che si basa su altri parametri e, come reazione, indurrebbe i sindacati a intensificare le loro rivendicazioni su diversi piani, non soltanto salariale, per difendere il loro ruolo di principale tutore degli interessi del lavoratore e dell’ascesa salariale. Va pertanto stabilito un rapporto equilibrato tra il livello del salario minimo e quelli dei contratti collettivi.

I riflessi sulla finanza pubblica vanno, altresì, considerati. Una soglia a 9 o 10 euro può far lievitare la spesa se le retribuzioni o le pensioni sono parametrate a multipli del salario minimo. Questo risultato, a esempio, potrebbe prodursi nell’adeguamento pieno all’inflazione dei trattamenti pensionistici rientranti entro un multiplo dell’accresciuto minimo salariale. All’incremento di spesa potrebbe non corrispondere un pari incremento delle entrate se l’aumento del salario minimo superasse quello della massa salariale che costituisce la base imponibile.

Da qualche parte si giustifica la proposta di una soglia salariale adducendo che è applicata nella maggioranza dei paesi dell’Ue, benché non in alcuni ad alto reddito pro-capite. Ogni comparazione di tal genere ha poca rilevanza perché si riferisce a paesi che differiscono dall’Italia per reddito pro-capite, standard di benessere, costo della vita, produttività e regimi di contrattazione nel lavoro. Si tratterebbe di un confronto poco significativo perché disomogeneo, benché le due soglie proposte posizionerebbero il Paese tra i quattro più generosi dell’Ocse.

In definitiva, l’adozione per ragioni di dignità o equità sociale di una soglia legale per i salari non presenta motivazioni economiche cogenti, può essere sostituita da altri interventi di pari efficacia ed è soggetta a grandi margini di incertezza su quale sia il livello appropriato. Incertezza anche sugli effetti che produrrebbe nel mondo del lavoro e nell’economia. Interventi alternativi sono possibili, quali l’estensione a tutti i lavoratori di ogni settore dei rispettivi minimi dei contratti collettivi, oppure l’approccio del Regno Unito che attraverso un’imposta negativa corrisponde un’integrazione salariale per elevare il reddito degli occupati a più basso salario oltre un livello ritenuto accettabile. Questa misura ha il vantaggio di incentivare la partecipazione al lavoro.

In ogni caso è ben chiaro che la scelta di introdurre un livello minimo salariale per legge è una scelta essenzialmente politica, facile da cavalcare sull’onda populista, ma che avrà ripercussioni ad ampio raggio.



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