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Un cantiere liberale e democratico

La fine della Seconda repubblica non sarà un pranzo di gala, direbbe qualcuno. E se nessuno che abbia davvero a cuore la convivenza civile della nostra nazione può augurarsi una replica dell’ordalia del 1992-1993, non può esservi alcun dubbio sul fatto che la conclusione di un ciclo politico ventennale dovrà portare con sé un’innovazione profondissima e radicale dell’offerta politica. Nel 2013 gli italiani non accorreranno in massa alle urne se il menù partitico rimarrà identico a quello che hanno dovuto sorbirsi dal ‘94 in avanti, né l’esplosione dell’antipolitica potrà essere sanata da superficiali operazioni di maquillage.
 
Mentre si archiviano leadership e narrazioni, si aprono enormi spazi da riempire con idee, contenuti, biografie. La crisi repubblicana è un caleidoscopio in movimento, che nell’arco del prossimo biennio troverà una nuova stabilizzazione con nuove geografie politiche di cui oggi possiamo solo intuire i contorni. La scelta del Pd di puntare sull’usato sicuro, la riscoperta di una prospettiva socialdemocratica ortodossa, è del tutto legittima ma difficilmente sarà in grado di dare all’Italia una prospettiva capace di rimettere in piedi una nazione che ha enorme bisogno di tornare a guardare avanti e a credere nel proprio potenziale civile, economico e culturale. È proprio questo il vero spazio d’innovazione che si sta aprendo nel mercato politico italiano, là dove si estende l’area potenzialmente maggioritaria dei milioni di quegli elettori che non credono che la risposta ai problemi del Paese si trovi riesumando ricette vecchie e usurate ma scommettendo su politiche di liberalizzazione e crescita.
 
Basta dirsi “moderati” per rivolgersi con convinzione a quell’area? Difficile crederlo. Perché la “moderazione” è il dato costitutivo della proposta conservativa del nuovo-vecchio Pd, perché la “moderazione” ha accompagnato tutte le fasi di stagnazione civile e politica della storia repubblicana e soprattutto perché l’Italia del 2013 avrà bisogno di una massiccia dose di quelle riforme sviluppiste che nessun governo della Seconda repubblica è stato in grado di fare. Quello che serve è un ampio fronte per la crescita e lo sviluppo, che aggreghi tutte le forze sociali, culturali e politiche che hanno a cuore una nuova partenza per l’Italia, e che muova da mutamenti sostanziali nel ragionamento su fisco e benessere. Perché se la priorità è cogliere le opportunità che nascono dall’integrazione delle economie internazionali è necessario riflettere sul fatto che il carico fiscale, fino a quando non potrà essere diminuito in assoluto attraverso la riduzione della spesa pubblica, deve essere orientato a beneficio della produzione.
 
Il livello ormai insostenibile della tassazione sulle imprese, vicino al 68% in termini di Total tax rate, sta provocando la distruzione della nostra base produttiva. Per questo l’abbassamento della pressione fiscale sulle imprese è l’obiettivo prioritario su cui indirizzare le risorse disponibili. Sostituire la battaglia per la diminuzione delle tasse su case, rendite e patrimoni con quella per un abbassamento delle tasse su chi produce e lavora è fondamentale per proporre una ricetta credibile per la crescita, guardando alla creazione della ricchezza piuttosto che alla conservazione del benessere accumulato (peraltro impossibile in un Paese fermo). Occorre dunque sostituire la retorica dei ristoranti pieni con quella delle linee di montaggio attive, dei prodotti esportati, dei nuovi posti di lavoro creati, della qualità della scolarizzazione raggiunta, della quantità di cultura prodotta e consumata.
 
Occorre riproporre con forza la questione di un radicale ridimensionamento del perimetro di azione dello Stato, opponendosi all’idea che le soluzioni alla bassa crescita si possano trovare operando attraverso incentivi e agevolazioni che sono quasi sempre inefficienti e generano intermediazione politica e corruzione. Uno slogan naturale del fronte per la crescita dovrebbe essere: “Un euro in meno di incentivi contro un euro in meno di tasse”. Mentre sul fronte delle dismissioni del patrimonio pubblico, su cui è inspiegabile il ritardo nell’iniziativa del governo, occorre procedere rapidamente, centralizzando il processo e riducendo i trasferimenti agli Enti locali che non dovessero dimostrarsi propensi a percorrere questa strada. Occorre abbandonare definitivamente l’idea che uno Stato forte significhi uno Stato pervasivo e onnipresente. Dobbiamo concentrare tutte le risorse sui cardini che costituiscono la missione fondamentale dello Stato (giustizia, welfare, difesa, sicurezza, istruzione, cultura, infrastrutture), tornando a considerare i cittadini come azionisti dello Stato a cui occorre render conto dettagliatamente sull’utilizzo delle tasse pagate. Anche per questa ragione è indispensabile passare rapidamente dalle parole ai fatti e utilizzare gli strumenti normativi già in vigore per destinare le risorse reperite dalla lotta all’evasione alla automatica diminuzione del peso del fisco.
 
È un programma “moderato”? Al contrario, è un programma di ispirazione liberale in forte discontinuità con quello proposto, e soprattutto realizzato, da tutti i governi della Seconda repubblica. Un programma che muove da un profondo grado di fiducia nei cittadini, nella loro capacità d’azione e di giudizio, nella corrispondenza possibile tra l’esercizio delle loro prerogative individuali in una sfera più ampia di quella attualmente concessa da norme, regolamenti e burocrazia, e il progresso culturale e materiale della nazione. È dunque urgente attivare risorse e pensiero contro la visione penitenziale e declinista del nostro presente e del nostro futuro che si va affermando in un Paese dove da troppo tempo la politica ha smesso di mobilitare le passioni e le idee. Contro il pregiudizio, altrettanto triste e cupo, che vuole l’Italia forte dei propri vizi più che delle proprie virtù. Contro l’idea che compito della politica sia raddrizzare “il legno storto” degli italiani invece che dello Stato con le sue mille anomalie. Per ricostruire un rapporto di reciproco rispetto tra Stato e cittadini, che è la premessa necessaria per ritrovare il coraggio, è indispensabile smettere di subire le grandi correnti di cambiamento che attraversano il mondo e riportare l’Italia finalmente a giocare in attacco.



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