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Priorità alla crescita economica nell’intervento pubblico. L’analisi di Zecchini

Non si potranno soddisfare tutte le richieste perché le maglie della prossima finanziaria saranno molto strette. Il 2024 si prospetta piuttosto complesso tra revisione del Def e stesura della legge di bilancio. La priorità va data alla crescita economica. L’analisi di Zecchini

Anche nel prossimo autunno, per il nuovo governo l’agenda economica si preannuncia particolarmente difficile, perché alcuni grossi nodi verranno al pettine con poche possibilità di rinvio nel tempo. Il primo riguarda la consueta manovra di autunno che si articolerà nell’aggiornamento del Def e poco dopo nella presentazione della legge di bilancio per il 2024, ma che dovrà muoversi entro limiti più stretti che nello scorso triennio per il ridotto margine di disponibilità di risorse pubbliche. Secondo gli impegni presi nell’ultimo Def la spesa pubblica in disavanzo non dovrebbe eccedere il 3,7% del Pil e il rientro dall’eccesso di debito pubblico accumulato durante la pandemia dovrà materializzarsi in una sua riduzione di almeno 0,7% del Pil. Ad accentuare le difficoltà stanno, da un lato, un nuovo fabbisogno finanziario stimato in circa 30 miliardi per iniziare a realizzare gli impegni presi con gli elettori e dall’altro lato, la sostanziale stagnazione della crescita dell’economia italiana ed europea, che rallenta il gettito fiscale, nonostante il correre dell’inflazione.

Giustamente il ministro Giorgietti ha voluto avvertire in anticipo gli italiani e i partiti al governo che non si potranno soddisfare tutte le richieste, sottolineando che occorre concentrarsi sulle priorità. Tra queste, in prima posizione pone il sostegno ai redditi medio-bassi, incluso l’alleggerimento strutturale del cuneo fiscale sulle retribuzioni medio-basse, e la promozione della crescita. Sul prima si conosce la portata e il probabile costo all’anno (9-10 miliardi), mentre sulla seconda si sa poco perché diverse le proposte ma incerta la priorità di ciascuna. Il clima pre-elettorale non aiuta a concentrarsi sulle misure che possiedono la più alta capacità di incentivare la crescita, ovvero su investimenti, rinnovamento tecnologico ed attuazione accelerata delle opere previste nel Pnrr.

Sono, invece, in considerazione la possibilità di anticipare ancora l’uscita dal lavoro, che è del tutto fuori luogo in un paese in piena denatalità e a relativamente bassa produttività, la riduzione dell’imposizione sui redditi come avvio di una riforma fiscale che non è neutrale ma costosa per il gettito fiscale, e possibili nuove spese per i contratti dei dipendenti pubblici, per detassare i premi di produttività, per la sanità e gli enti locali. Nessun segnale, invece, su tagli spesa, benché si sia programmata una ristrutturazione delle agevolazioni per ottenere risparmi di spesa, una misura contraddetta dalle proposte di nuovi aiuti per il Made in Italy, l’industria spaziale e altri comparti. Nel contempo sono previsti prelievi straordinari, come quello sui guadagni delle banche, con l’effetto di diffondere incertezza tra le imprese.

Basta questo insieme di misure per spingere la crescita, pur rimanendo nelle strettoie tra bassa crescita ed aggiustamento di bilancio approvato da Bruxelles? Sullo sfondo campeggiano altri due nodi per la manovra: le modifiche al Patto di Stabilità, che se non approvate lasciano aperto il ritorno degli stretti vincoli del 2019, e l’approvazione del Mes, che vede il Paese isolato nel contrastarla.

La dispersione in tanti interventi puntuali tende a ridurre la loro spinta complessiva sulla crescita, perché i loro effetti possono dissiparsi in destinazioni poco produttive (come consumi non durevoli) e perché non sono sufficienti a mitigare il problema dominante, ovvero l’impatto della stretta monetaria e creditizia, particolarmente tra le Pmi. Per supplire alla carenza di margini di manovra si ricorre agli strumenti dell’interventismo diretto nel sistema economico-finanziario, come hanno fatto i precedenti governi.

Continuità con il recente passato costellato di oneri più che di benefici, piuttosto che imbarcarsi in grandi e controverse riforme. Si interviene, pertanto, su singoli comparti produttivi e segmenti finanziari, nell’attesa del ritorno a condizioni meno tese in campo finanziario e di riflesso all’espansione delle maggiori economie europee. I rischi di questo approccio sono quelli di entrare in contraddizione con l’obiettivo più importante di elevare il potenziale di crescita nel prossimo quinquennio.

Un esempio si è già visto nel prelievo straordinario sugli utili delle banche, misura comparativamente più agevole e ad effetto immediato rispetto a provvedimenti per accentuare la concorrenza nel sistema finanziario e per ridurre l’opacità nelle condizioni reali delle imprese meno grandi, opacità che frena il credito. Misura, inoltre, singolare e dai possibili effetti controproducenti, in quanto non ha avuto analoga applicazione per gli extra-utili delle compagnie petrolifere e di altri settori, né mette al riparo da effetti negativi per famiglie ed imprese, che potrebbero finire per pagarne il costo in seguito alla possibile traslazione dell’onere su di loro.

Un altro caso d’interventismo diretto in campo finanziario dall’impatto incerto è dato dal provvedimento predisposto per l’esdebitazione delle imprese insolventi e per la risoluzione dell’ammasso di crediti deteriorati che pesa ancora sui bilanci delle banche e le induce ad adottare criteri più stringenti nella concessione di crediti. In realtà, circa tre quarti di questi crediti sono stati ceduti sul mercato a istituzioni specializzate nel loro recupero. Nelle banche più grandi l’incidenza di questi crediti si è ridotta al 2,4% (al lordo delle rettifiche di valore), portandosi in linea con le medie europee, mentre la copertura delle esposizioni creditizie insolute è salita al 54,4%, che implica un accantonamento di pari grandezza. Nelle altre banche, l’incidenza avrebbe maggior peso e si rifletterebbe in più cautela nelle concessioni di credito.

Pertanto, la misura mira principalmente ad aiutare l’impresa debitrice insolvente, soprattutto la piccola impresa e le ditte individuali, ad alleggerire la loro posizione debitoria per poter rientrare nel mercato del credito e rianimare la loro attività. Si introduce una figura giuridica che si affianca a quanto già esistente, quali l’esdebitazione del debitore incapiente e il concordato stragiudiziale nell’ambito delle procedure esecutive concorsuali. La misura prevederebbe che in caso di cessione dell’esposizione creditizia il debitore possa chiedere un accordo con la banca creditrice per il pagamento di una modesta quota del debito e lo stralcio del totale. Per i crediti già ceduti il debitore avrebbe la stessa possibilità verso il nuovo creditore, saldando un importo pari al prezzo della cessione aumentato del 20%. In altri termini, si fissa per legge il margine di utile che l’investitore in un credito deteriorato può realizzare, bloccando ogni azione per il recupero di un importo eventualmente maggiore.

Quali i vantaggi e i rischi del provvedimento? Sul primo fronte, si smobilizzano posizioni che secondo le normali procedure richiedono tempi lunghi per risolversi. Si alleggerisce il carico tanto sugli organi giudiziari che sarebbero chiamati a decidere sulla procedura esecutiva, quanto sulla finanza pubblica, che ha concesso garanzie su crediti pari al 15,8% del Pil nel 2022.

In una fase di bassa congiuntura economica si può, peraltro, dubitare che l’intervento possa contribuire a rilanciare le attività dell’impresa interessata. Un simile effetto potrà prodursi solo in un’economia in espansione in cui si moltiplicano le opportunità d’investimento. Al tempo stesso, fissare per legge margini di utile sulle cessioni rappresenta un altro esempio di interventismo diretto, che si aggiunge agli altri casi di controlli sui prezzi. Molto incerto, invece, l’effetto atteso di riapertura dell’accesso al credito per l’impresa, in quanto nel mondo creditizio le informazioni sul merito di credito circolano e lasciano traccia al di là della cancellazione dalla Centrale dei Rischi. Più probabile che quanto più si riduca la quota di rimborso per la banca tanto maggiore sarà la sua cautela nella valutazione della rischiosità dell’impresa richiedente un finanziamento e tanto maggiore sarà anche il premio per il rischio che applicherebbe. Per gli investitori nel recupero dei crediti l’effetto potrebbe essere sfavorevole, col risultato di scoraggiare lo sviluppo del mercato per lo smobilizzo dei crediti insoluti delle banche.

Ma vi è altresì una distorsione che si produce nel sistema di imprese, di cui si tiene poco conto nell’aiutare indistintamente le imprese, comprese le più vulnerabili. La misura è proposta per i crediti deteriorati dal 2009 a metà del 2023, un lungo periodo che copre sia gli anni della crisi debitoria sia quelli della pandemia e degli shock dell’energia e delle conseguenze della guerra in Ucraina. Imprese che non riescono ad essere solvibili per lunghi anni ma che si tengono a stento sul mercato con vari aiuti pubblici non costituiscono la parte sana del mondo produttivo e finiscono con lo scaricare oneri sulla parte competitiva attraverso vari canali.

Quale convenienza per lo sviluppo del Paese a tenerle ancora in piedi? Se si intende sostenere l’occupazione, sarebbe meglio favorirne lo spostamento verso imprese sane e verso una nuova imprenditoria. Dare una seconda opportunità all’impresa o imprenditore insolvente non dà risultati positivi per il sistema se è carente un ambiente favorevole all’imprenditoria e alla concorrenza. Meglio consentire la ripulitura del sistema ed impegnarsi a migliorarne le condizioni esterne.

L’interventismo pubblico, quando ritenuto opportuno in un’economia di mercato, va impiegato a buon fine per sostenere i meritevoli e sfrondare i rami secchi. Questo criterio dovrebbe valere nella destinazione di tutti gli incentivi ed agevolazioni alle imprese, una costellazione di aiuti che da anni si mira invano a ristrutturare. In particolare, andrebbe tenuto presente nell’assumere partecipazioni al capitale di rischio di imprese o direttamente, o attraverso istituzioni finanziarie. Quando il finanziamento pubblico è in congiunzione con quello privato, come nei fondi d’investimento cofinanziati e gestiti da privati, la condivisione del rischio tra pubblico e privato può dare qualche garanzia sull’oculatezza dell’investimento. Ma quando il soggetto pubblico, come la Cassa Depositi e Prestiti, e la Simest, non investono insieme al privato simili garanzie si affievoliscono e tende a prevalere la ragione politica.

In assenza di un’organica revisione di tutti gli aiuti pubblici, l’interventismo va impiegato con molta prudenza per non trasformarsi rapidamente in mero assistenzialismo, che rende più arduo tornare alla crescita mentre si riequilibra bilancio e debito.

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