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Perché l’israeliano Cohen ha svelato l’incontro con la libica Mangoush

La mossa di Cohen ha rivelato che il ministro degli Esteri israeliano aveva interessi a diffondere pubblicamente le sue attività. Nel farlo però, ha irritato altri protagonisti della vicenda e fatto saltare la collega libica Mangoush

La reazione è stata tra lo stupito e l’imbarazzato: quando la notizia dell’incontro romano con la ministra degli Esteri libica, Najla Mangoush, e l’omologo israeliano, Eli Cohen, è stata fatta uscire dallo stesso Cohen, a Roma, Tripoli e Tel Aviv c’è stato un sussulto. Anche a Washington. Tutto doveva restare coperto dal riserbo, perché quell’incontro era informale, e propedeutico alla coltivazione di un processo: la Libia in futuro poteva diventare uno dei Paesi arabi/islamici che hanno normalizzato le relazioni con Israele (e forse non solo: l’incontro poteva trattare anche di qualcosa riguardo al futuro stesso della Libia).

Processo alterato

L’annuncio del ministro Cohen sul vertice nella capitale italiana ha alterato questo percorso. Sono gli americani a dirlo, grandi sponsor di queste rinnovate relazioni israeliane diventate esplicite con gli Accordi di Abramo (formato su cui l’amministrazione Biden crede, pur preferendo quello del Forum del Negev). Su Walla!, media israeliano sempre molto informato, l’altrettanto informatissimo Barak Ravid, giornalista con ottime entrature nel mondo del segretario Antony Blinken e del consigliere Jake Sullivan, raccoglie per esempio le critiche feroci di anonimi funzionari statunitensi. 

Il rapporto tra l’amministrazione Biden e il governo di Benajamin Netanyahu è tutt’altro che smooth, e circostanze come quella avvenuta a Roma coi libici sono ottimi inneschi per scatenare i dissapori. Washington ha usato i canali diplomatici per protestare duramente e direttamente (il ministro degli Esteri israeliano ha però minimizzato). E poi gli americani hanno risposto a Cohen col contrappasso dei media. “Ha ucciso il canale dei colloqui con la Libia, e ha reso molto più difficili i nostri sforzi per promuovere la normalizzazione con altri Paesi”, dice un funzionario a Walla!.

Per gli Stati Uniti, quella normalizzazione è altamente strategica: serve a dare ordine al costantemente caotico Medio Oriente, ad alleviare tensioni intrinseche, a guadagnare vantaggio operativo e diplomatico contro i rivali (l’Iran, ma anche la Russia con le sue operazioni ibride, e la Cina, che con l’accordo Riad-Teheran ha dimostrato di essere anch’essa interessata ad attività di normalizzazione regionale). Questi contatti per distendere le relazioni, che — come nel caso della Libia — spesso sono da decenni interrotte e basata su forme di ritrosia ideologica, sono processi lenti. Serve diplomazia e riservatezza. Ora Washington teme che la sparata di Cohen metta l’attuale governo Netanyahu in una percezione di inaffidabilità.

E un’ulteriore percezione negativa sul governo israeliano non serve certo. Netanyahu guida un esecutivo che è visto come estremista e anti-palestinese in modo eccessivo. Tanto che la super-strategica distensione con l’Arabia Saudita — la distensione delle distensioni, su cui Washington lavora da anni e con maggiore intensità negli ultimi mesi — non sta arrivando anche per questo. Riad non vuole essere esposta, il Paese protettore dei luoghi sacri dell’Islam non vuole mostrarsi accondiscendente e debole con chi maltratta i “fratelli” palestinesi.

È vero che sono “fratelli” fin tanto che serve nella narrazione e negli interessi generali, ma le leadership — che probabilmente potrebbero con facilità mollare la causa — sanno che serve mantenere presa e consenso sulle collettività ed evitare pretesto per scatenare ire e proteste. E ancora, in qualche modo, le collettività  sentono la questione palestinese come propria (chi si ricorda quante bandiere palestinesi c’erano ai Mondiali in Qatar?). La Libia in questo fa da paradigma come spesso accade nelle faccende dell’area Mena: il primo ministro Abdelhamid Dabaiba, lunedì 28 agosto mentre le notizie sull’incontro Cohen-Mangoush riempievano i giornali di mezzo mondo, è andato in visita all’ambasciata palestinese di Tripoli a rassicurare che il suo Paese non ha intenzione di normalizzare le relazioni con “l’entità sionista”.

Lo ha fatto perché centinaia di libici sono scesi in strada e hanno manifestato davanti al ministero degli Esteri e alla casa privata del premier, per protestare sull’incontro tra ministri. Non sono stati soltanto sentimenti puri e spontanei a muovere quelle proteste, c’è stata una serie di pretesti che passano da critiche precedenti contro Mangoush a una serie di rimescolamenti che potrebbero interessare presto il governo libico. Ma la questione israeliana è stata usata come simbolo, e il successivo gesto di Dabaiba è stato simbolico quanto dovuto.

Altrettanto lo è stata la sospensione di Mangoush, che ha fatto da parafulmine su una vicenda che invece, stando alle fonti libiche, era assolutamente condivisa da Dabaiba stesso. Da tempo, come ammettono gli americani, si parla di un contatto tra Tripoli e Israele: forse il premier si era già visto in Giordania col capo del Mossad lo scorso anno, ma quella vicenda — ufficialmente smentita — fu gestita in modo molto più discreto e garbato. Caratteristiche che sono mancate in questo caso, mettendo in difficoltà tutti.

Cui prodest?

Se si considera che Cohen ha i mesi contati, forse sì può supporre che potrebbe essere un suo diretto interesse raccontarsi come un super ministro in prima linea su passaggi “storici” (sua definizione dell’incontro con Mangoush) per Israele. A fine anno, il governo israeliano avrà un classico rimpasto, turnazione di ministri nella coalizione, e Cohen lascerà vuota una casella importante. La quale nel suo caso però è sempre stata di valore minore. Tutti sanno che Netanyahu lo ha scelto perché con lui avrebbe potuto più facilmente gestire direttamente parte della politica internazionale. L’altra parte la gestisce il ministro degli Affari strategici, Ron Dermer.

Cohen ha provato a rivendicare un ruolo a tre mesi dal suo addio pensando di fare cosa buona per un suo potenziale ripescaggio di qualche genere? Ha voluto provare a lasciare una sua eredità pensando agli elettori? Possibile, visto che dichiara: “Voglio fare cose mai fatte prima, il mio motto come ministro degli Esteri è di far fare quanti più progressi possibile”. Oppure qualcuno lo ha usato per mandare un messaggio incrociato a Netanyahu? Una potenziale ricostruzione che arriva da ambienti israeliani si lega al ruolo che il ministero vuole riacquisire in futuro, anche nell’ottica di quel rimpasto. Ministero che sta iniziando a muoversi col passo dettato da alcune nuove, importanti caselle.

Sotto quest’ottica, quasi non contano le conseguenze. In questo caso, i danni collaterali della spifferata orgogliosa ai media non sarebbero stati ignorati ingenuamente, ma sarebbero stati accettati come elementi di ordine inferiore. Tesi che conferma come in molti casi, anche nella strategico-centrica Israele, ormai le necessità di politica interna dettano il passo con le azioni in politica estera.

Fatto sta che due governi ne escono sorpresi e irritati, l’Italia e gli Stati Uniti, uno abbozzato — la Libia. In Italia c’era preoccupazione che il ruolo della Farnesina, limitato ad aver fornito un’opportunità di incontro per un dossier strategico per gli interessi di stabilizzazione del Mediterraneo allargato, potesse uscire sui giornali ed essere mal assorbito dai protagonisti. Invece è stato uno dei protagonisti a rendere tutto pubblico, e senza avvisare gli altri: “Non si fa”, è il commento più educato tra quelli che escono da Roma, Tripoli e Washington. Da Tel Aviv arrivano invece considerazioni più personali.



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