La modifica della forma di governo che l’esecutivo presenterà al Parlamento non ha nulla di scandaloso: non è una forzatura istituzionale e non rappresenta un’umiliazione dell’attuale Presidente della Repubblica. Si può non essere d’accordo, ma chi grida allo scandalo è in malafede
Il presidenzialismo, si sa, è una delle principali bandiere politiche di Giorgia Meloni: naturale voglia inastarla almeno parzialmente (si tratta di una riforma costituzionale, i tempi di approvazione saranno dunque lunghi) entro le elezioni europee della prossima primavera.
Dell’elezione diretta del capo del governo e del rafforzamento dei suoi poteri si parla da ormai quarant’anni. Sono state costituite a questo scopo commissioni parlamentari mono e bicamerali che non hanno prodotto alcun risultato concreto, sono stati approvati disegni di legge costituzionali poi respinti dagli elettori al momento del relativo referendum confermativo. Quarant’anni di tentativi, quarant’anni di fallimenti.
Al punto 3, quello dedicato alle riforme istituzionali, del programma elettorale del centrodestra presentato lo scorso agosto si parla di “elezione diretta del presidente della Repubblica”. Il presidenzialismo, dunque, è stato annunciato agli elettori e (anche) sull’impegno a realizzare una riforma presidenziale la coalizione di centrodestra ha vinto le elezioni. Diversi giornali, alcuni costituzionalisti e quasi tutti i partiti di opposizione hanno cominciato sin dall’inizio della legislatura a raccontare la riforma presidenziale ipotizzata da quella che nel frattempo era diventata la maggioranza di governo come un attacco quasi personale all’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, di cui peraltro, ma ciò è costituzionalmente irrilevante, è nota la scarsa simpatia verso tale forma di governo sia in quanto costituzionalista sia in quanto uomo politico. Un’interpretazione priva di fondamento costituzionale, oltre che di senso politico. Come se ogni riforma costituzionale approvata a norma di Costituzione dovesse avere l’avallo di chi ricopre la funzione che verrà riformata.
Tuttavia, avendo interesse a mantenere buoni rapporti con l’attuale inquilino del Colle e a far approvare la riforma istituzionale dalla più ampia maggioranza parlamentare possibile, Giorgia Meloni ha tenuto conto di tali obiezioni. È chiaro da mesi, è ancor più chiaro oggi leggendo le prime bozze di riforma redatte dal ministro competente, Maria Elisabetta Casellati. L’ipotesi di eleggere direttamente il presidente della Repubblica è infatti scomparsa. Si parla di elezione diretta del presidente del Consiglio. Il quale, com’è ovvio, assorbirebbe alcuni dei poteri che la Costituzione attribuisce oggi al capo dello Stato, come la nomina e la revoca dei ministri e lo scioglimento delle Camere.
È il segno di una non scontata disponibilità alla mediazione da parte di Giorgia Meloni e del suo governo. Ma i giornali, i costituzionalisti e le forze politiche che menavano scandalo prima lo fanno anche oggi. Né più, né meno. La realtà, evidentemente, non conta. Conta la rappresentazione della realtà.
La realtà che, per come si sta delineando, la modifica della forma di governo che l’esecutivo presenterà al Parlamento non ha nulla di scandaloso: non è una forzatura istituzionale e non rappresenta un’umiliazione dell’attuale presidente della Repubblica. Si limita a dare forma giuridica alla retorica, ad oggi infondata, dell’elezione diretta del capo del governo e ad attribuirgli quei poteri minimi che gli consentono di non subire i ricatti dei partiti che compongono la sua maggioranza. Dunque di assumersi le responsabilità che la funzione presuppone e di durare quant’è politicamente naturale che duri. Si può, naturalmente, non condividere il merito della riforma. Ma chi grida allo scandalo è in malafede.