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Il papa in Mongolia, guardando anche alla Cina

Il viaggio del pontefice in Mongolia ha diverse ragioni e diversi scopi. Li spiega Riccardo Cristiano, sottolineando due aspetti che caratterizzano il Paese asiatico: l’ateismo di Stato dell’apparato burocratico e l’essere il secondo polmone del mondo dopo l’Amazzonia. Ma non solo…

Papa Francesco parte oggi per la Mongolia e molti si sono chiesti se questo viaggio non nasconda (anche) qualche intenzione. Siccome tutti sanno che con Francesco tutto è possibile, benché il protocollo sia il protocollo e lui sia in ogni caso (anche) un capo di Stato, la voce diffusa dall’agenza russa Tass già da settimane che il papa avrebbe proposto al patriarca di Mosca Kirill di vedersi in aeroporto a Mosca in occasione di una sosta per rifornimento ha richiamato molte attenzioni. Ma il piano di volo annunciato ufficialmente dal Vaticano non prevede alcun sorvolo dello spazio aereo russo, ma di quello cinese.

Appare sicuro che il papa, in ossequio alla prassi che lo vede inviare un telegramma ai capiti di tutti gli Stati quando entra nel loro spazio aereo, lo farà anche con Xi, benché tra Repubblica Popolare e Città del Vaticano non intercorrano relazioni diplomatiche. Un fatto comunque molto rilevante e che ci porta al punto più importante che emerge da questo viaggio: il rapporto tra Stato e Chiesa, tra potere politico e potere spirituale. La storia in Estremo Oriente ha visto la Chiesa cattolica implicata in vicende che l’hanno avvicinata più ai coloristi occidentali che ai popoli locali, almeno nel tempo precedente la comparsa dell’ateismo di Stato. Questo ateismo di Stato ha formato anche in Mongolia un apparato burocratico ostile alle fedi per la passata influenza sovietica e oggi per il peso della sospettosa Cina. Ma al contempo il governo mongolo dimostra interesse e attenzione alla presenza missionaria cattolica, preziosa per gestire molti progetti nel campo educativo e agricolo.

Le serre che la Chiesa sta aiutando a costruire sono un punto importante per un Paese che ha una dieta problematica proprio per la strutturale carenza agricola, come lo sono i progetti che davanti all’urbanizzazione galoppante stanno facendo emergere alcolismo e violenza domestica come piaghe sociali. Ma la presenza missionaria se da una parte viene richiesta dall’altra è ostacolata da vecchie consuetudini, che ad esempio innalzano il costo dei visti. Il problema ha rilevanza anche alla luce dei rapporti tra Stato mongolo e la confessione prevalente, quella buddista tibetana. Dopo che il Dalai Lama indicò il nuovo capo del buddismo tibetano dalla capitale del governo del Tibet in esilio, Pechino ha inasprito i rapporti con i buddisti mongoli, tentando di imporre un’autorità ad essa gradita. Un po’ quello che accadeva con i cattolici cinesi, ai quali si voleva imporre una Chiesa patriottica.

L’accordo provvisorio tra Santa Sede e governo di Pechino è il decisivo tentativo di conciliare autentico patriottismo e autonomia spirituale (nel caso cattolico fedeltà ecclesiale a Roma), un processo complesso, che richiede reciproca conoscenza e quindi fiducia. I cattolici cinesi sono veri cinesi, come i buddisti mongoli sono veri mongoli. La loro fedeltà alla patria non può essere messa in discussione dall’essere cattolici o buddisti. Ecco allora che il sofferto iter dell’accordo provvisorio diviene un filo sul quale costruire un diverso ordito che  consenta poi di realizzare una trama innovativa, che porti al pluralismo senza mettere in discussione la fedeltà alla patria. È una trasformazione del potere asiatico, che in Cina fa ancora del segretario generale il “figlio del cielo” come era l’imperatore, e che richiederà tempo e che spiega il motto del viaggio, “sperare insieme”. Incuneata tra Russia e Cina, la Mongolia non può consentir a una Chiesa cattolica di 1500 anime di essere altro che lievito, non può sognare un trionfalismo né pensare a neo colonialismi. Il viaggio dunque ha un risalto continentale, perché testimonia al nuova attenzione al continente, come ha risalto nel metodo, cioè la missionarietà come sistema di lavoro per attrazione, non certo conversione forzata. Il dialogo accresce ogni soggetto dialogante perché consente una migliore conoscenza dell’altro: è il modo migliore per pensare una Chiesa che inculturi nella realtà mongola il cristianesimo.

Ma c’è anche un altro tratto che non può essere rimosso, è quello ambientale. Il papa che proprio ieri ha annunciato la revisione dell’enciclica Laudato si’ penserà certamente alla guerra mondiale contro la casa comune di cui ha parlato prima di imbarcarsi per Ulaanbataar. Lui sa certamente del pianeta, il papa che sta aggiornando l’enciclica Laudato si’ per la sua drammatica attualità sa che hanno ragione i mongoli dicendo che “la loro terra ancestrale è il secondo polmone del pianeta. Mentre la foresta amazzonica è fondamentale per assorbire le emissioni di anidride carbonica del mondo, l’Asia centrale filtra l’acqua che irriga il resto dell’Asia. In particolare, la Mongolia occupa sei diverse zone ecologiche, che si trovano al punto di incontro tra i flussi vitali europei e asiatici”. Lo ha scritto su The Diplomat Michel Chambon che ha opportunamente concluso il suo articolo con queste parole: “C’è una buona ragione perché papa Francesco visiti la Mongolia. Grazie alla sua posizione geografica e alla sua storia unica, la Mongolia può svolgere un ruolo più centrale nelle sfide geopolitiche e ambientali della nostra epoca. Il secondo polmone del nostro pianeta deve essere sano e forte per ravvivare le conversazioni internazionali sul riscaldamento globale, la sovranità nazionale e l’economia globalizzata. Allo stesso tempo, la Santa Sede spera che le autorità mongole possano adeguare il loro approccio nei confronti delle istituzioni e del personale cattolico per favorire future collaborazioni”.



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