Il rapporto tra Chiesa cattolica e Cina non è né tutto positivo né tutto negativo. La cultura del partito in Cina fa del suo segretario qualcosa di molto simile all’imperatore dei tempi passati, che si faceva chiamare “figlio del cielo”. In buona parte è ancora così e la novità dell’accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese ha proprio in questo il suo enorme valore: portare a una distinzione tra buon patriota e fedele di una comunità religiosa. La riflessione di Riccardo Cristiano
Non avere relazioni diplomatiche non vuol dire essere maleducati. Forse c’è anche questo alla base della scelta di papa Francesco di inviare un telegramma al presidente cinese Xi, quando il suo volo è entrato nello spazio aereo cinese, gentilmente concesso dal governo di Pechino. Andò così, come è indispensabile ricordare, già in occasione del suo viaggio a Seul, quando per giungervi il volo papale fu autorizzato a entrare nello spazio aereo cinese. Ed è andata così questa notte, quando il papa ha potuto raggiungere Ulaan Bataar evitando il non sicuro spazio aereo russo sorvolando la Cina per oltre un’ora. È un fatto certamente importante, ma rinnovato e non soltanto per buona educazione, certamente, ma anche. Francesco ha sempre dimostrato attenzione nei confronti di Pechino. Attenzione e interesse, avendo definito quella cinese una grande cultura millenaria, quale indubbiamente è.
Pechino ha subito risposto con cortesia alla cortesia di Francesco, come riferisce l’Ansa: “La Cina è pronta a continuare a lavorare con il Vaticano per impegnarsi in un dialogo costruttivo, migliorare la comprensione, rafforzare la fiducia reciproca”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, parlando nel briefing quotidiano. Pechino “promuoverà il processo di miglioramento delle relazioni tra i due Paesi”, ha proseguito il portavoce.
Resta il fatto però che, secondo Gerald O’Connell che lo ha scritto sul periodico dei gesuiti statunitensi America, un dipartimento del Partito Comunista Cinese non avrebbe autorizzato alcun vescovo cattolico cinese, di quella che si chiama Cina continentale, cioè esclusa Hong Kong, a raggiungere il pastore universale della loro Chiesa in questi giorni che trascorrerà in Mongolia. America sostiene che neanche ordinari cattolici cinesi potranno recarsi in Mongolia in questi giorni. Altre fonti dicono che alcuni fedeli cattolici dalla Cina continentale forse arriveranno, ma il no ai vescovi è significativo anche perché tutti sanno che i vescovi sono “fratelli nell’episcopato” di Francesco.
A guardare oltre si potrebbe notare che il papa è stato invitato in Mongolia anche dalla comunità induista tibetana, maggioritaria in quel Paese, e Pechino non ha rigidità solo con i cattolici o con i musulmani, ma la ha e molto acuta con questa importante comunità religiosa, tanto da aver tentato di imporle una guida gradita al regime in Mongolia.
Insomma, chi pensasse a qualcosa di semplice sbaglierebbe di certo, come chi volesse vedere un rapporto tutto positivo o tutto negativo. La cultura del partito in Cina fa del suo segretario qualcosa di molto simile all’imperatore dei tempi passati, che si faceva chiamare “figlio del cielo”. In buona parte è ancora così e la novità dell’accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese ha proprio in questo il suo enorme valore: portare a una distinzione tra buon patriota e fedele di una comunità religiosa.
Nulla impedisce di essere entrambi ma la storia ha i suoi conti da regolare: prima dell’epoca dell’ateismo di Stato molti missionari cattolici si dimostrarono più vicini agli interessi delle potenze coloniali del tempo che a quelli del popolo cinese.
Oggi le cose sono cambiate, la Chiesa dal Concilio Vaticano II parla un linguaggio nuovo, non più “occidentale” o “occidentalista”. Ma bisogna conoscersi per capirsi e questo è il motivo per cui è improbabile che Francesco e il suo segretario di Stato, cardinale Parolin, si faranno raffreddare nel desiderio di proseguire il cammino verso una migliore comprensione con Pechino, con vescovi pienamente cinesi e pienamente cattolici.
Il dogmatismo dirigista di Pechino è l’altro ostacolo e in questo il viaggio in Mongolia potrebbe avere un valore rilevante. Non perché per la prima volta accadrà questo o quello, ma perché una migliore comprensione tra Chiesa e Mongolia, fortemente influenzata dalla Cina, potrebbe aiutare quella reciproca conoscenza e comprensione che sola può dare frutti, pian piano e nel tempo. Il motto di questo viaggio, “sperare insieme”, da questo punto di vista è perfetto. Aiuta e risolvere le incomprensioni di ieri e a superare quelle perduranti nell’oggi. Il viaggio, tra poco, ci dirà come.