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Da Ita a Mps, lo Stato nell’industria secondo Nicola Rossi

La presenza pubblica, anche in forma di presidio, credo debba essere una soluzione da escludere dove lo Stato come azionista, sia pure di minoranza, può dar luogo a conflitti di interesse. L’intervento più importante della prossima manovra finanziaria, all’insegna della prudenza, è quello che regalerà al Paese la stabilità e la certezza di una rotta. Intervista all’economista dell’Istituto Bruno Leoni e docente, Nicola Rossi

Un convitato elegante, silenzioso, mai invadente. Se si dovesse immaginare lo Stato italiano al tavolo della grande industria, lo si potrebbe immaginare più o meno così. In tempi in cui si dibatte sulla necessità di rafforzare o meno la presa della mano pubblica sull’economia, sono tanti i dossier sul tavolo di Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti che guardano ai movimenti nel capitale di aziende strategiche.

Ita, di cui si attende la cessione del 40% a Lufthansa entro fine anno, e Telecom, di cui lo Stato è pronto ad assicurarsi il 20% della rete primaria e secondaria, una volta sciolta la riserva sull’offerta vincolante di Kkr che arriverà, salvo sorprese, entro il 30 settembre. Ma anche Mps, di cui il Tesoro è azionista di controllo al 64% ma prossimo a diluirsi, così come pattuito con l’Europa. E allora, privatizzare o non privatizzare. E, se sì, come? Formiche.net ne ha parlato con Nicola Rossi, economista dell’Istituto Bruno Leoni, docente e saggista.

La cessione di parte di Ita, con lo Stato ancora azionista di maggioranza ma di cui è facile prevedere un ulteriore futuro arretramento nel capitale e l’ingresso con il 20% nella rete di Tim, una volta venduta, sembrano aver in comune il fatto di garantire un presidio pubblico in grandi società private e ben presenti sul mercato. La politica del nocciolo duro, se così possiamo chiamarla, può essere un modello di privatizzazione vincente, convincente e magari poco invasivo?

Se si ritiene opportuno mantenere una modalità diretta di intervento nella vita di aziende le cui caratteristiche si ritengono, per qualche motivo non sempre chiaro, peculiari, una piccola partecipazione di minoranza può essere una soluzione. Francamente, data la pletora di strumenti di intervento di cui lo Stato si è dotato negli ultimi tempi, non la considererei la soluzione più ovvia. Dal momento in cui lo Stato espande o mantiene la propria presenza in alcuni comparti, ritengo del tutto ragionevole che in altri settori, dove la presenza dello Stato non è né necessaria né utile, lo Stato si ritiri.

Dunque lo Stat deve esserci dove non fa danni, per intendersi…

La presenza pubblica, anche in forma di presidio, credo debba essere una soluzione da escludere dove lo Stato come azionista, sia pure di minoranza, può dar luogo a conflitti di interesse deleteri.

Un esempio?

Mi riferisco, in particolare, al comparto bancario dove sarebbe opportuno che lo Stato, che in questo momento, ad esempio, vende alle banche i suoi titoli e offre alle banche le sue garanzie, dismettesse per intero le sue partecipazioni. E non penso solo a Mps.

Sono almeno 20 anni che in Italia si parla di utilizzare i proventi delle privatizzazioni per risanare parte dei conti pubblici. E allora, dando per buono che sia ancora così questa volta (in ballo c’è anche il disimpegno da Mps), meglio agire sul debito o sulla pressione fiscale?

I proventi delle dismissioni non possono, com’è ovvio, finanziare la spesa corrente o essere utilizzati per riduzioni permanenti della pressione fiscale non avendo natura permanente. Possono e devono, anzi, essere portati ad abbattimento del debito e di conseguenza tradursi in minori esborsi futuri per interessi. Il che potrebbe in seguito lasciare spazio per interventi sulla spesa o sulle entrate.

Quando il governo di Giorgia Meloni ha preso forma e corpo, in molti si aspettavano una ventata di sovranismo industriale, a base di statalizzazioni. Le cose non sembrano essere andate così. Ha vinto il libero mercato o più semplicemente il buon senso?

Ha vinto, io credo, la consapevolezza che il Paese ha in questa fase e guardando in avanti un bisogno disperato di una crescita solida e duratura. E questa viene solo ed esclusivamente dalle famiglie e dalle imprese cui devono essere lasciati gli spazi per agire, affrontare i mercati e innovare.

Conclusione?

Se mai ce ne fosse stato bisogno, gli eventi dell’ultimo triennio dimostrano con straordinaria puntualità che la crescita sostenuta dal bilancio pubblico e a debito è un fuoco di paglia che lascia dietro di sé nulla dal punto di vista dei livelli di benessere e molto invece dal punto di vista dei debiti. E che impedisce e impedirà alla politica economica di avere i margini di libertà che, come abbiamo visto, a volte possono essere necessari.

Parliamo della manovra in gestazione, che sembra avere poche risorse su cui poggiare. L’idea del governo è quella di puntare tutto o quasi sul taglio strutturale del cuneo. Ne vale la pena?

La conferma dell’intervento sul cuneo fiscale è, mi sembra, nei fatti. Ma il governo non dovrebbe avvertire come una colpa i ridotti margini di manovra. L’intervento più importante della prossima manovra finanziaria, all’insegna della prudenza, è quello che regalerà al Paese la stabilità e la certezza di una rotta.

Due condizioni non facili da ottenere…

Stabilità e certezza della rotta sono condizioni essenziali per la crescita. Dopo di che se la Commissione europea comprenderà che gli impegni a carattere europeo (mi riferisco in particolare alle spesa per la difesa) non possono essere trattati così come gli impegni a carattere strettamente nazionale, allora forse qualche spazio ulteriore potrebbe crearsi. Ma in un quadro, ripeto, che è e deve rimanere di disciplina finanziaria e chiarezza degli obiettivi del Paese.

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