“Videocrazia” e “sondocrazia” forse oggi pesano ancora più di ieri, accompagnati dall’impatto dell’uso dei social sulla comunicazione politica. Forse è soprattutto per questo che sembra che un po’ tutte le forze politiche si stiano riposizionando in vista delle elezioni europee della prossima primavera. Il commento di Luigi Tivelli
Non credo sarebbe facile per nessuno essere al posto del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha avuto in qualche modo una sorta di investitura popolare dopo una dozzina di anni di governi tecnici o dominati dalla sinistra (compreso il governo Conte 1), la cui difficile e complessa eredità non è certo solo quella del governo Draghi, ma è sostanzialmente quella degli ultimi 30 anni.
Sono infatti 30 anni che il Paese non cresce, o ha la crescita minore tra i Paesi occidentali, grazie anche al record di minor incremento della produttività registratosi. Un record che non è che deriva da quelle migliaia di imprese che si battono con successo nei mercati e che sostengono il nostro export, ma da un sistema pubblico e dei servizi pubblici che è una vera palla al piede per la produttività complessiva. Ma l’Italia da oltre 30 anni soffre di mal di produttività e soffre anche di mal di concorrenza e mal di merito. È un fatto significativo che Meloni abbia imbracciato in sede di presentazione del suo governo alle Camere, la bandiera del merito, ma non ci può essere vera meritocrazia senza vera concorrenza (sin qui ben poco amata sia dalla destra che dalla sinistra), senza cui si produce ben poco ai fini della crescita del Pil e dello sviluppo interno del Paese.
Giorgia Meloni è arrivata poi al governo come esponente di un partito spostato verso i confini dell’arco politico. Ricordo che quando capitò ad un altro leader, in ben diverse condizioni, di giungere al governo con l’ipoteca di essere il primo post comunista che assumeva quell’incarico (Massimo D’Alema), una delle prime cose che fece fu quella di dotarsi di un ottimo consigliere economico, incarnato dalla persona di Nicola Rossi. Un consigliere economico di sana cultura liberaldemocratica, piuttosto che di cultura ed estrazione postcomunista e marxista. Non mi risulta, ma forse sbaglio io, che, invece, la presidente Meloni disponga di una figura autorevole di consigliere economico, (salvo che ci sia qualcuno che lo fa da dietro le quinte), ma forse per la complessità dei problemi economici in atto non mi sembrerebbe una cattiva idea quella di permettere al presidente del Consiglio di poter godere di un simile tipo di consiglio con una certa strategia e continuità.
Non è poi che il curriculum della presidente Meloni, significativo in quanto leader politico capace di cercare e trovare consensi, sia particolarmente notevole quanto a esperienze, conoscenze e competenze di natura economica… Ma lungi da me, né in questa sede, né in altre dare consigli. Sto però evidenziando questo aspetto perché anche i bambini sanno ormai che la ripresa autunnale sarà non poco complicata, specialmente sul piano economico e sociale. C’è il problema di mettere insieme una manovra finanziaria degna e capace di rispondere sia all’eredità complessa a lungo termine, sia ad una non meno intricata a breve termine (si pensi, ad esempio, ai 100 miliardi del bonus 110% regalatoci dal governo Conte), mentre sta maturando un nuovo Patto di stabilità europeo.
Certo, il ministro Giorgetti, che si mostra ancora una volta fra i più seri ed equilibrati, sostiene che il bilancio dello Stato è “la coscienza di una nazione”, ma il timore è che la vera coscienza degli italiani sia ben più solida ed avanzata rispetto a quanto può emergere dalle manovre finanziarie che si ventilano. Ad esempio, pur cercando di tenermi informato fatico a capire che fine abbia fatto una dignitosa spending review. Forse esiste un “simulacro”, ma non so che cosa si stia facendo in questo ambito. Credo onestamente che in seno alla torta dei circa 1000 miliardi di spesa pubblica, di cui quasi tutti di spesa corrente, qualche fetta si possa tagliare…
L’ipoteca della spesa corrente nel complesso della spesa pubblica si fa sempre più pesante, mentre quella della spesa per investimenti, a parte il Pnrr, che però presenta altri tipi di problemi di effettiva messa a terra, presenta percentuali che mi sembrano un po’ ridicole. Non ho mai dimenticato poi, e questo vale anche per il Pnrr, la lezione di un grande economista e ministro come Paolo Savona, che amava dire che la spesa per investimenti funziona sostanzialmente con il “principio della cornamusa”. Sembra che affinché la cornamusa possa emettere un piccolo suono, il sacco deve essere sempre pieno. Qualcosa di simile è avvenuto spesso in Italia (e c’è il rischio che debba accadere anche per il Pnrr) per la spesa per investimenti, in cui gli investimenti effettivi man mano si rivelano molto inferiori rispetto ai fondi stanziati o messi in opera sulla carta.
Quindi una seria spending review e una seria ricognizione dei limiti, dei modelli e delle caratteristiche della nostra spesa per investimenti tramite essa, mi sembrerebbe più che mai essenziale. Poi incombe la questione dei bassi salari o del “salario minimo”, come viene chiamata. Sarebbe però il caso di interrogarsi sulle ragioni per cui l’Italia è una delle pochissime nazioni al mondo (a parte gli effetti dell’evasione fiscale) che ha lo stesso reddito pro capite di 25 anni fa… Vedremo come procederà l’istruttoria al Cnel (sostanzialmente non riconosciuta dalle forze della sinistra) oggi presieduto da un buon economista del lavoro come Renato Brunetta. C’è la questione di un certo grado di riconoscimento del ruolo dei sindacati nella contrattazione collettiva, come è ben noto, che in molti settori vede livelli minimi ben superiori a quelli previsti da un salario minimo fissato per legge. Ma anche agli stessi sindacati bisognerebbe dare una occhiatina in questo strano Paese in cui l’articolo 39 della Costituzione, sull’effettività della contrattazione collettiva e su un certo riconoscimento del ruolo dei sindacati, non è mai stato attuato. Una questione che crea non pochi effetti e problemi. Infatti, un conto era quando il leader della Cgil era Luciano Lama, un conto è oggi che lo è il movimentista Landini…
Certo è noto che su questo tema Meloni prima della pausa estiva fece un “viraggio”, perché i sondaggi mostravano un forte sostegno degli italiani ad una proposta di salario minimo fissato per legge, rispetto ad una posizione un po’ pregiudizialmente negativa precedente. Legittimo che ciò avvenga, ma in questa classe politica pochi hanno incorporato anche la parte più semplice della lezione di un grande scienziato politico come Giovanni Sartori (che insegnava in quella grande fucina di idee che fu il Cesare Alfieri di Firenze, in cui insegnava anche Giovanni Spadolini, alla cui persona è intestata l’Academy di cultura e politica che mi onoro di presiedere). Egli non ha mai smesso di mettere in guardia sui pericoli della miscela tra “videocrazia” e “sondocrazia”, avvertendo che le forze politiche tendevano già a suo tempo nelle loro azioni ad essere guidate dalla televisione, dagli umori del momento, da certi talk show e dagli effetti della lottizzazione in Rai, in una strana mescolanza che ha portato ad una eterodirezione da parte della classe politica e di governo da parte dei sondaggi.
Mi pare che rispetto ai tempi in cui Sartori aveva prodotto questa semplice elaborazione teorica oggi la miscela tra “videocrazia” e “sondocrazia” pesi ancora di più, magari oggi accompagnata più di ieri dall’impatto dell’uso dei social sulla comunicazione politica. Forse è soprattutto per questo che sembra che un po’ tutte le forze politiche si stiano riposizionando in vista delle elezioni europee della prossima primavera. Come cittadini siamo rimasti abbastanza soli in mezzo a leader che invece di pensare alle prossime generazioni pensano solamente alle prossime elezioni.
Bisogna fare una sorta di azione da rabdomante della politica e delle classi politiche, infatti, per trovare qualcuno che pensi alle prossime generazioni. Così mi sembra vadano le cose in vista della ripresa autunnale, intervallata di casi, come il caso Vannacci, e fenomeni come il “vannaccismo”, non a caso alimentato da una parte della destra (soprattutto, ma non solo da Salvini), ben più di quanto occorrerebbe nell’interesse del Paese e in cui il confronto sui veri problemi concreti o è per certi versi latitante o è deviato da qualche impronta populistica e da una impronta paraelettoralistica.