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Un anno di Giorgia Meloni. I risultati (veri) e il realismo di Fitto e Giorgetti

​Tempo di bilanci per Palazzo Chigi. E mentre il Financial Times spara alzo zero su Via XX Settembre, i fatti smentiscono raccontando di una fiducia sui mercati costruita un pezzo alla volta, di un concreto rilancio del Mezzogiorno e di un Pnrr che se non è in cassaforte poco ci manca. Restano i timori di Giorgetti su tassi e Patto di stabilità. Ma non è una cattiva notizia

Se ci si dovesse fermare a qualche strillo di giornale, a Giorgia Meloni e al suo governo non si renderebbe la giustizia dovuta. Perché, va detto, l’esecutivo a trazione Fratelli d’Italia che si appresta a compiere il suo primo anno di vita in questi mesi ha portato a casa dei risultati. Come a dire, c’è del buono a Palazzo Chigi. E anche a Via XX Settembre.

LA FIDUCIA DEI MERCATI

L’incipit del viaggio per raccontare l’azione del governo Meloni sotto una luce diversa non può che partire da quello che è, piaccia o no, uno dei pilastri delle finanze italiane: il mercato, che garantisce ogni anno all’Italia centinaia di miliardi di euro comprando i bond sovrani emessi dal Tesoro, a cominciare dai Btp. Più il mercato compra, più l’Italia è solida. Bene, in quasi dodici mesi di governo, Borsa e spread hanno attestato più di una volta la loro fiducia verso l’esecutivo. E questo a scanso di equivoci dal momento che, all’indomani della dura presa di posizione del Financial Times, che dà per finita la luna di miele tra Palazzo Chigi e investitori, il differenziale di rendimento tra Btp e Bund è rimasto saldamente sotto i 180 punti base.

Bisogna raccontarla tutta, la verità. I mercati finanziari hanno risposto complessivamente bene nell’ultimo anno, grazie anche all’atteggiamento cauto del nuovo esecutivo che ha rassicurato gli investitori, inizialmente preoccupati per eventuali frizioni con Bruxelles. Le prime misure economiche varate dal governo sono state infatti piuttosto prudenti e improntate al rispetto dei vincoli di bilancio europei, in continuità con quelle di Draghi. Ed ecco la prova.

In tale contesto, nell’ultimo anno il Ftse Mib (l’indice delle 40 società più importanti di Piazza Affari in termini di capitalizzazione e volumi transati) ha guadagnato all’incirca il 37%, sovraperformando l’Eurostoxx 50 (+28%), l’S&P 500 (+20%) ma anche lo stesso Nasdaq (+34%). In tale contesto, lo spread Btp-Bund si è contratto all’incirca del 27%, passando dai 245 punti base del 25 settembre 2022 agli attuali 179 punti, con minimi intorno ai 160 punti.

IL PNRR PRENDE VITA

Chiarito il punto, a entrare nel merito il passo è breve. E, attenzione, nemmeno in questo caso si farà esercizio di ottimismo spicciolo. Non si può negare, per esempio, che il governo Meloni, per mezzo del ministro per gli Affari Europei, Raffaele Fitto, abbia portato a casa punti importanti in chiave Pnrr. Uno score, che parla di terza e quarta rata messe già in cassaforte: 18 miliardi la prima, 16,5 la seconda, non proprio briciole. Poche ore fa, a due settimane dallo sblocco della terza rata, il consiglio Affari generali dell’Unione Europea ha dato il via libera alle modifiche della quarta rata del Pnrr.

Una notizia positiva per l’Italia, come ha rimarcato lo stesso Fitto. “Questo risultato è frutto di un’intensa e proficua collaborazione tra il governo e la Commissione europea”. Ora l’Italia potrà chiedere l’esborso dei 16,5 miliardi di euro previsti da questa tranche, con un ritardo di circa tre mesi sulla tabella di marcia iniziale. Il piano modificato dell’Italia riguarda 10 obiettivi sui 27 previsti dalla quarta tranche. Tutte modifiche ritenute necessarie dal governo per allinearsi al mutato contesto internazionale e rispettare le scadenze previste. Tra i progetti modificati ci sono gli incentivi per l’efficienza energetica nell’ambito del cosiddetto Superbonus, il progetto di sviluppo dell’industria cinematografica che cambia soltanto nome, gli investimenti sulle tecnologie satellitari, i posti negli asili nido e scuole dell’infanzia, le colonnine elettriche.

UNA SUPER ZES A PROVA DI SUD

Non è finita. Tra le bandierine del governo c’è anche la creazione di un’unica, grande, Zona economica speciale (Zes) per il Sud, ponendo fine all’esperienza, finora non troppo felice, dei piccoli distretti meridionali posti alle spalle dei principali porti del Mezzogiorno. Questo il progetto del governo per avere al posto di tante piccole realtà a regime fiscale avvantaggiato, una sola, con l’obiettivo, dichiarato, di premiare le aziende già presenti sul territorio e quelle che intenderanno insediarvisi in futuro.

Giova ricordare come una Zes, concetto nato con il Decreto legge 91 del 2017 e finora applicato a otto realtà, tra loro distinte, altro non è che una zona geografica stabilita e riconoscibile al cui interno vigono procedure semplificate e regimi fiscali meno pressanti. Al momento le cifre e le percentuali non sono note, ma il governo ha comunque intenzione di alzare il tiro. Anzi, lo ha già fatto, per mezzo ancora una volta di Raffaele Fitto.

E così, nell’ambito di un decreto appositamente cucito su misura per il Sud e presentato dallo stesso Fitto nella conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri di ieri pomeriggio, ha visto la luce la Zes unica per il Meridione. Fra i vantaggi della Zes unica, c’è sicuramente l’estensione dello speciale credito d’imposta a tutto il Sud, come peraltro spiega la norma che istituisce le stesse Zone economiche speciali: le nuove imprese e quelle già esistenti, che avviano un’attività economica o investimenti, possono usufruire di procedure semplificate e regimi procedimentali speciali, con accelerazione dei termini procedimentali ed adempimenti semplificati.

Nella medesima occasione, tanto per chiudere la finestra sul Mezzogiorno, Palazzo Chigi ha anche ridisegnato il perimetro e la gittata dei fondi per il Sud. Confermando che il complesso delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione, per il periodo di programmazione 2021-2027, è destinato a sostenere esclusivamente interventi per lo sviluppo, ripartiti nella proporzione dell’80% nelle aree del Mezzogiorno e del 20% nelle aree del Centro-Nord.

GIORGETTI IL REALISTA

Gettando il cuore oltre l’ostacolo, si arriva dritti in Europa. Qui entra direttamente in gioco Giorgetti, che non è certo uno stregone o un chiromante e che per conto di Roma, sta negoziando la riscrittura del Patto di stabilità, nella speranza che Bruxelles possa gettarsi una volta per tutte alle spalle dodici anni di austerity forsennata, debitamente spazzata via da pandemia e guerra. Passo indietro. Il governo Meloni è alla sua seconda manovra, con la differenza che mentre quella del 2022 fu scritta a quattro mani con Mario Draghi, quella odierna sarà tutta a carico di Giorgetti e del premier.

Ora, la prudenza dimostrata finora dal Tesoro è alla base del rapporto distensivo con l’Europa, oltre che della quiete dei mercati. Eppure ci sono due tegole sulla finanziaria in gestazione e Giorgetti lo sa bene. Tanto da non curarsi di passare per un realista duro e puro. I tassi e un Patto di stabilità che senza modifiche non consentirà al governo di mettere a terra il bilancio (su tutti vale l’esempio degli investimenti strategici che necessitano dello spin off dal calcolo del deficit).

“Certamente per chi è indebitato l’aumento dei tassi non è stato positivo noi abbiamo un debito per cui lo spread di tassi di interesse rispetto all’anno scorso fa sì che la manovra di bilancio sia stata portata via dalla rendita finanziaria. Sse i tassi fossero rimasti quelli dell’anno scorso o di due anni fa avevo 14-15 miliardi in più da mettere sul fisco ma non ci sono più e si farà piu fatica ma si fa”, ha ammesso il ministro. Come a dire, l’aumento dei tassi voluto dalla Bce ha mangiato parte della manovra.

Un realismo che guarda anche alle regole di bilancio, il secondo grande problema di Paesi quali l’Italia, la Spagna e persino la Francia. “Noi chiediamo l’esclusione degli investimenti dal Patto di stabilità e crescita perché l’introduzione di questa regola dal 2024 in avanti per un Paese come l’Italia, che ha 80 miliardi al minimo purtroppo in continuo aumento di superbonus da pagare sul debito nei prossimi 3-4 anni, e ha spese importantissime di investimento finanziate coi prestiti del Ngeu è matematicamente impossibile rispettare quella regola” di riduzione del debito. Realismo allo stato puro e messaggio forte e chiaro.

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