Mayer, che fu dirigente del Pci negli anni in cui Napolitano guidava la corrente dei “miglioristi”, ha (quasi) sempre condiviso le posizioni di colui che sarebbe poi diventato Presidente della Repubblica. Alla Bolognina capì perché quella corrente fosse spesso molto prudente: gli elettori non erano pronti a perdere la “diversità” comunista. E racconta di quando Kissinger negò il visto a Napolitano perché…
Avevo 21 anni quando ho conosciuto Giorgio Napolitano. Era il 26 ottobre del 1973, a Bologna, in occasione dell’Assemblea Nazionale degli studenti della Fgci. In queste giornate di lutto, riguardando gli atti di quel incontro a Bologna, ho riletto con grande emozione che, in quella occasione, ebbi l’onore di essere citato nel suo intervento.
Nel rileggere il testo mi sono ricordato che nell’illustrare a una platea di giovani molto dubbiosi il significato del “compromesso storico” Napolitano spiegò quella nuova strategia senza ricorrere a fumisterie ideologiche sul fatto che non bastava il 51% per governare, eccetera, eccetera. Giorgio Napolitano disse molto semplicemente che la crisi economica italiana era così profonda da richiedere uno sforzo comune tra i tre maggiori partiti politici, nello spirito di rinnovata unità nazionale. Napolitano aveva visto giusto: di lì a poco la crisi energetica, collegata alla guerra del Kippur, avrebbe costretto gli italiani alle celebri domeniche a piedi e il tasso di disoccupazione giovanile avrebbe raggiunto livelli preoccupanti.
Per inciso – ma voglio ricordarlo a chi crede di aver riscoperto solo oggi il sostantivo “Nazione” e l’aggettivo “nazionale” – Giorgio Napolitano aveva un fortissimo attaccamento all’identità e alla cultura italiana.
Dopo quel primo incontro a Bologna ne ho avuti tanti altri nel periodo, compreso tra il 1975 e il 1990, anni che in cui ero impegnato come dirigente del Pci in Toscana; consigliere regionale per quasi tre legislature, tra il 1976-1990; capogruppo del Pci; Assessore Regionale e Coordinatore Nazionale degli Assessori al lavoro e alla cultura, incarichi sin troppo importanti per la mia giovane età.
Dalla seconda metà degli anni Settanta ho condiviso (quasi) sempre le posizioni di Napolitano insieme al mio “maestro” di politica, Gianfranco Bartolini, operaio della Galileo, che divenne un grande Presidente della Regione Toscana. Bartolini era un uomo molto vicino a Napolitano e, tra l’altro, aveva stabilito una amicizia e una collaborazione istituzionale con Bill Clinton quando questi ancora era governatore dell’Arkansas.
Nel Pci i riformisti, ovvero i “miglioristi”, nomignolo dispregiativo inventato – se non erro – da Michele Serra su L’Unità, erano pochi, ma tra di loro c’erano grandi personalità. Ricordo ad esempio una riunione “un po’ carbonara” con Napolitano in via Giulia a Roma – tenutasi dopo la Bolognina – alla quale parteciparono, tra gli altri, Emanuele Macaluso, Luciano Lama, Nilde Jotti, Gianni Cervetti, Enrico Morando, Umberto Ranieri, Lanfranco Turci, (forse anche Sergio Cofferati, ma non sono sicuro). Tra questi c’era Umberto Minopoli, morto a 69 anni nell’aprile scorso, particolarmente vicino a Giorgio Napolitano che lo ha salutato come un “compagno e amico carissimo“.
Minopoli, napoletano come Claudio Velardi, era una personalità molto colta e determinata sin dai tempi della Fgci e sarebbe diventato anche lui editorialista di Formiche.net.
Spero che un giorno Giovanni Matteoli, da tanti anni validissimo collaboratore (insieme a Elvira Oxilia) del Presidente Napolitano, voglia proseguire le ricerche pubblicate da Enrico Morando e da Umberto Ranieri per completare in ogni dettaglio la storia di quel gruppo di personalità lungimiranti che ebbe il coraggio di lavorare controcorrente (nel Pci non era facile) e guardare lontano.
Oltre ad Emanuele Macaluso (una bellissima amicizia) e altri dirigenti storici del partito vorrei ricordare altre amicizie importanti di Napolitano: Antonio Giolitti, Altiero Spinelli, Luigi Spaventa, Renato Ruggero, Antonio Maccanico, Giuliano Amato sono i primi nomi che mi vengono in mente. Un incontro intellettuale particolarmente significativo fu, inoltre, quello con Ralf Dahrendorf, direttore della London School of Economics, allievo di Karl Popper. Il profondo legame di Napolitano con Dahrendorf traspare nel messaggio di cordoglio pubblicato sul sito del Quirinale indirizzato ai familiari in occasione della sua scomparsa.
Mi ricordo il giorno della Bolognina. Io ero molto contento, ma al tempo stesso amareggiato perché non mi aspettavo un dissenso così ampio nel partito. In effetti alcuni mesi prima nel febbraio del 1989 settimanale Epoca realizzò un sondaggio proprio sulla questione del nome: solo il 27,7 per cento dell’elettorato comunista risultò favorevole a un’ipotesi di cambiamento.
Solo dopo la Bolognina mi resi pienamente conto del perché Napolitano fosse sempre stato determinato, ma al tempo molto accorto. Evidentemente lui conosceva molto bene gli umori profondi del partito e sapeva quanto fosse forte l’attaccamento alla “diversità” come tratto identitario dei comunisti italiani.
In precedenza, invece, mi era capitato più di una volta di criticare l’eccesso di prudenza dei “miglioristi”. La mia impazienza si manifestò, ad esempio, alcuni mesi prima della Bolognina nella fase di preparazione del congresso nazionale del Pci del 1989. A Firenze presentai un documento alternativo a quello ufficiale che ebbe un modestissimo sostegno tra i delegati, ma fu pubblicato sulla rivista Il Ponte.
Su alcuni quotidiani Giorgio Napolitano è stato definito l’erede di Giorgio Amendola. Per quanto attiene la politica economica non c’è dubbio che fosse in linea con la “destra amendoliana” del partito. Spesso ebbero posizioni analoghe, si pensi soltanto alle loro intelligenti autocritiche dopo la marcia dei 40.000 alla Fiat e all’attenzione dedicata alle preoccupazioni di Ugo la Malfa per la finanza pubblica e l’inflazione. .
Sul piano internazionale, invece, la continuità con Amendola meriterebbe di essere approfondita. Negli Stati Uniti gli analisti speravano che il successore di Luigi Longo alla guida del Pci fosse Enrico Berlinguer, perché lo consideravano più autonomo di Giorgio Amendola nei confronti di Mosca – anche per la sua amicizia e solidarietà con Alexander Dubcek, leader della Primavera di Praga. Dopo la critica all’invasione sovietica di Praga nel 1969 gli Stati Uniti iniziano a stabilire contatti con il Pci, soprattutto nelle regioni “rosse”, come la Toscana. Mi ricordo che nello stadio Franchi di Firenze nel 1974 sfilarono militari italiani, marines americani e i partigiani in occasione del XXX della Liberazione di Firenze come testimonia un bel documentario dell’Istituto Luce.
La celebrazione fu voluta e coordinata dal futuro sindaco comunista di Firenze, Elio Gabbuggiani. Negli anni Settanta per Gabbuggiani – come per Gianfranco Bartolini e per altri amministratori pubblici del Pci – Giorgio Napolitano fu un costante riferimento sia per i contatti con gli Stati Uniti sia per gli importanti gemellaggi istituzionali avviati con comuni e regioni guidate dai partiti della socialdemocrazia europea.
Nel 1981 fui invitato a tenere un seminario dal Prof. Robert Putnam al Center for European Studies di Harvard e sul passaporto avevo accanto al visto un codice numerico particolare scritto a mano perché ero capogruppo del Pci. (Alcuni anni dopo un simpatico poliziotto di frontiera all’aeroporto Kennedy mi disse scherzando: “why do you have this code, the party is over”). Ma tornando al seminario ad Harvard rimasi colpito dal fatto che gran parte delle domande (per esempio di Charles Maier e di Suzan Berger) partivano dalle conferenze che Giorgio Napolitano, nell’aprile del 1978, aveva tenuto nelle università americane.
A questo proposito in una interessantissima intervista a “30 Giorni”, la rivista di Giulio Andreotti, il Professor Joseph La Palombara racconta tanti retroscena politici e dettagli organizzativi di quel viaggio.
Dall’intervista di La Palombara emerge un particolare che non conoscevo. Nel 1975 fu Harry Kissinger in persona a negare il visto di ingresso negli Usa a Giorgio Napolitano, che era stato invitato a tenere una conferenza a Harvard. Un particolare curioso, considerando che Napolitano era ritenuto da Kissinger il suo “comunista preferito”. “Finché Segretario di Stato sarà Kissinger questo visto non sarà mai dato”, fu il commento di La Palombara nel 1975. Due anni dopo nel novembre 1977, con Cyrus Vance al Dipartimento di Stato e Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, la pratica del visto fu riaperta e Giorgio Napolitano, futuro Presidente della Repubblica Italiana, dal 4 aprile al 19 aprile del 1978 poté finalmente entrare negli Stati Uniti per tenere le Conferenze alle università di Yale, alla Johns Hopkins e nel prestigioso e influente Council on Foreign Relations.
Quanto il Presidente Emerito sia stato un grande leader e un uomo che ha lasciato il segno, anche nella sua prima visita negli Stati Uniti 45 anni fa, lo racconta nell’intervista citata Joseph La Palombara, con le cui parole vorrei chiudere questo mio personale ricordo di Giorgio Napolitano:
“On 19 April 1978 Napolitano returned to Rome. His visit gave strong impetus to the policy of opening up and gave backing to a policy less inclined to fear. He had made an impression with his unforced, unshowy charisma, … One began to appreciate Giorgio Napolitano along the road, following his arguments, watching him manage the question and answer tussle, so sacred to us Americans. He set out humbly and won the goodwill of the public. There was no need for me and my American colleagues to hold a debriefing for us see everything the visit had achieved. It was the basis for further developments.”