Che un cambiamento negli obiettivi di politica economica del governo, nel tempo, vi sia stato è indubbio. È un male? Non ne saremmo tanto sicuri. Se il mondo fosse quello di ieri forse. Ma lo è? Il commento di Gianfranco Polillo
I numeri e gli scenari: due universi paralleli che bisogna cercare di mantenere collegati. I primi contribuiscono ad illuminare i secondi e viceversa. Ed insieme forniscono la chiave per una conoscenza più approfondita del reale. I numeri sono quelli della Nadef: il documento del governo che ha il compito di indicare la rotta che seguirà la successiva legge di bilancio. Quella che è solita concludere l’anno e proiettarsi sull’immediato futuro. Sono i dati relativamente certi, almeno in periodi normali. Frutto di metodologie di analisi sperimentate nel tempo e di algoritmi convalidati da continue opere di manutenzione.
In sintesi queste le previsioni del triennio. La crescita del Pil per l’anno in corso si riduce dal previsto 1 per cento allo 0,8. Mentre per l’anno successivo il vecchio programmatico, stimato dal Def nell’1,5 per cento, scende all’1,2. Valore che ritroveremo come media nei due esercizi successivi. Il debito pubblico, la grande palla al piede della società italiana, dovrebbe stabilizzarsi. Passando dal 141,7 per cento del 2022 al 139,6 per cento del 2026. C’è poi il capitolo indebitamento, in cui, come vedremo tra un attimo, i crucci e le incertezze sono elementi che non fanno dormire.
Il passivo del bilancio è destinato ad aumentare di quasi un punto di Pil, passando, nell’anno, dal 4,5 per cento (dato programmatico del vecchio Def) al 5,3 per cento, per poi ridursi al 4,3 per cento nel 2024. Il rispetto del fatidico 3 per cento lo si avrà solo nel 2026. Se tutto andrà bene, bisogna, tuttavia, aggiungere. Quel punto percentuale in più (lo spunto iniziale), è soprattutto l’effetto della decisione Eurostat secondo la quale i crediti fiscali, a fronte dei vari bonus per l’edilizia, relativi a quest’anno, vanno classificati “come ‘pagabili’ nel 2023”. E quindi destinati a gravare sul deficit in atto. Notizia inizialmente accolta con un sospiro di sollievo dai tecnici del Mef. Le regole del “Patto di stabilità” sono ancora sospese. Non vi saranno pertanto conseguenze negative per il relativo sforamento.
Sennonché la cosa è tutt’altro che decisa. L’applicazione del principio della pagabilità comporta la verifica effettuale dei pagamenti pregressi, che rappresentano invece un’incognita. Dato che molti crediti risultano ancora “incagliati”. Successive verifiche potrebbero quindi portare ad una loro diversa scalettatura. I crediti incagliati sarebbero portati in diminuzione dell’indebitamento pregresso, per farli poi pesare sui prossimi esercizi finanziari. Con effetti disastrosi sui futuri conti pubblici. Insomma ancora oggi, se ne verrà a capo solo tra qualche mese, “grande è la confusione sotto il cielo”, ma “la situazione” a differenza di quanto diceva Mao Tze Tung, è tutt’altro che “eccellente”.
Se il futuro è tutto in grembo a Giove, almeno per il 2024, ed in via provvisoria, l’Italia potrà godere di un effetto di trascinamento. Il deficit di bilancio di fine anno, essendo più alto rispetto alle previsioni del Def, consentirà di poterne ridurre il peso, nel 2024, e garantire, allo stesso tempo, un margine di manovra in più, che si stima intorno ai 10 miliardi di euro (0,4/0,5 per cento del Pil). Che potranno essere spesi, senza per altro interrompere il processo di miglioramento dei conti pubblici. Dato che il nuovo deficit risulterebbe comunque inferiore, seppure di poco, a quello dell’anno precedente.
Che il quadro finanziario, come si vede, sia complesso non v’è dubbio alcuno. Più decifrabili, invece, le previsioni a breve delle tendenze reali dell’economia nazionale. Che, purtroppo, riportano il Paese indietro nel tempo. Con tassi di sviluppo che si discostano, ma di poco, dal passato, quando la crescita media annuale, dalla nascita dell’euro, era stata un po’ meno dello 0,3 per cento all’anno. Speriamo quindi che il dato dello 0,8 per cento possa essere confermato. Esso è superiore dello 0,1 per cento rispetto all’ “acquisito” del secondo trimestre del 2023, che fu segnato da una discreta caduta (0,3 per cento).
Speriamo quindi nella seconda parte dell’anno, altrimenti si rischia un nuovo scivolone. Come fu quello relativo alla gestione di Giuseppe Conte, allora presidente del consiglio di due distinti e contrapposti governi: quello giallo verde prima e quello giallo rosso poi. Sul tema vale la pena spendere una parola, dopo il can can organizzato dal Presidente pentastellato, qualche giorno fa, in occasione della revisione, operata dall’Istat, dei conti nazionali. Revisione che aveva portato ad una rivalutazione del Pil 2021 (anno del suo governo) dell’1,3 per cento. Gaudio maximo da parte di tutti gli esponenti del Movimento. Pronti a giurare che la loro gestione, specie per i vari bonus dell’edilizia, era la ricetta dell’avvenire. Altro che scavare buche e poi coprirle di nuovo, come suggeriva il vecchio Keynes.
I dati, purtroppo, non fanno altro che freddare quell’euforia. Durante la gestione di quei due governi (1 giugno 2018 – 13 febbraio 2021) il Pil italiano si era ridotto, nel complesso, ad un ritmo dell’0,45 all’anno. In compenso il debito pubblico, grazie alla compiacenza del ministro dell’Economia, specialmente nel periodo giallo-rosso, era passato dal 134,1 al 154,9, per poi discendere, soprattutto per merito del nuovo governo, retto da Mario Draghi, al ritmo di 5 punti l’anno. Dati che dimostrano l’inconsistenza di chi vuol farsi bello con le penne del pavone.
Fin qui l’analisi dei numeri. Ma in quale contesto collocarli? Siamo in un periodo normale? Business as usual: come dicono gli inglesi? Difficile prestarvi il fianco. Già il Covid aveva scosso dalle fondamenta l’economia mondiale. Crollo dei consumi, per via del lockdown. Chiusura delle fabbriche più importanti e numerose per restringere l’area del contagio. Disarticolazione delle vecchie catene del valore a livello internazionale. Mordacchia sugli scambi internazionali. Helicopter money da parte di tutti i Paesi che potevano permettermelo. Con il risultato di disarticolare un vecchio modo di produrre e consumare.
Da quel burrone il mondo era appena uscito ed ecco gli orrori della guerra voluta da Vladimir Putin, nel suo sogno revanscista di un ritorno ai tempi degli Zar. Di cui l’invasione dell’Ucraina – cosa non da tutti compresa – è solo un primo step. Papa Francesco è solito parlare di una terza guerra mondiale a pezzi. Fino a qualche anno fa sembrava un’esagerazione. Oggi invece è una delle analisi più lucide presenti sul campo. Consente di comprendere come il costo di questa guerra – inflazione, petrolio, tassi di interesse – non possa gravare solo sulla Russia. Con il rublo a pezzi e tassi d’interesse pari al 13 per cento. Ma abbia condizionato tanto il Nord quanto il Sud del Mondo.
Ed ecco allora il raccordo tra i numeri e lo scenario di cui si diceva all’inizio. Che spiega anche perché si sia rovesciata una vecchia tendenza. Quella che vedeva l’economia italiana arrancare dietro quella tedesca o francese. Oggi si verifica il contrario. Lo shock nei confronti dei diversi Paesi è stato simmetrico, ma le conseguenze, per le diverse caratteriste di ciascuno, sono asimmetriche. Non a caso il premio Nobel per l’economia Michael Spence parla di una “globalizzazione frammentata”, caratterizzata da “venti contrari”. Per cui a secondo del “frammento” in cui il singolo Paese è collocato – si pensi solo al rapporto più o meno esclusivo della Germania con la Cina o la stessa Russia – le conseguenze possono essere diverse.
Come andranno, allora, le cose? Difficile rispondere. Il condizionamento internazionale continuerà ad essere prevalente, riflettendosi sui prezzi delle commodities, a partire dal petrolio, quindi sul tasso di inflazione che inciderà fortemente sulla politica monetaria. La quale appare, fin da ora, leggermente differente tra le due sponde dell’Atlantico. Differenze che spiegano il repentino rafforzamento del dollaro nei confronti dell’euro. Nello stesso tempo la frammentazione dei mercati finanziari, nell’Unione, incide direttamente sugli andamenti degli spread, amplificandone la dinamica rispetto alle tendenze di base dell’economia. In un puzzle così complicato, logica vorrebbe non ancorarsi vicino alle coste, ma navigare in mare aperto. Evitando cioè di legarsi mani e piedi alle rigidità di un “Patto” che richiede, per poter funzionare, una relativa normalità.
È solo il caso di aggiungere che, in Italia, fenomeni così complessi sono poco compresi e quasi per niente analizzati. La polemica politica fa aggio su qualsiasi altra valutazione. Ed allora può capitare, come avviene sempre più di frequente, che Giorgia Meloni sia chiamata, sul banco degli imputati. Con l’accusa di essere incoerente ed un po’ voltagabbana rispetto a precedenti sue affermazioni. Alcune datate molti mesi addietro. Dissotterrate ad arte negli archivi della memoria, per essere poi sbattute in prima pagina o gridate nei talk show televisivi. Che un cambiamento, nel tempo, vi sia stato è indubbio. È un male? Non ne saremmo tanto sicuri. Se il mondo fosse quello di ieri forse. Ma lo è?