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Cosa unisce Napolitano e la destra di oggi. Arditti risponde ad Amato

Amato ragiona con una prospettiva, quella della sinistra nelle sue varie versioni che hanno convissuto e, in parte, plasmato il Novecento, che è certamente quella egemone sotto il profilo culturale, ma non per questo può essere considerata l’unica disponibile

Nella sua intervista di oggi con Repubblica, Giuliano Amato ricorda l’infaticabile impegno riformista di Giorgio Napolitano per poi ragionare sull’attualità politica italiana, mettendo in evidenza la fatica dei partiti di destra nel momento in cui sono chiamati al difficile esercizio del governo. Nel farlo incrocia il tema dell’immigrazione, proponendo che l’Europa riconosca lo status di rifugiato economico con pari dignità a quello politico, in modo da consegnare una speranza concreta anche a tutti coloro che fuggono per fame o miseria dal continente africano.

Come sempre Amato merita di essere ascoltato, ma a mio avviso propone un punto di vista che non tiene conto di un fenomeno politico essenziale per cogliere il senso del nostro tempo.

O meglio, Amato ragiona con una prospettiva, quella della sinistra nelle sue varie versioni che hanno convissuto e, in parte, plasmato il Novecento, che è certamente quella egemone sotto il profilo culturale, ma non per questo può essere considerata l’unica disponibile.

Mi spiego meglio, proprio partendo da Napolitano. La battaglia per l’Europa e per le sue istituzioni, la solida volontà di aprire un dialogo con gli americani e l’apertura al rapporto con le socialdemocrazie hanno sempre fatto di lui un comunista atipico e sono probabilmente anche all’origine della sua “ascesa” al colle più alto della Repubblica, dove ha poi retto le sorti istituzionali della nazione con rispetto delle regole ma piena capacità d’intervento nelle dinamiche politiche e parlamentari. Detto ciò, resta il fatto che quel partito comunista in cui anche Napolitano ha militato per decenni ha avuto almeno due facce. La prima, nobilissima, di traghettatore di masse operaie e contadine verso il nobile approdo democratico, che certo non era nelle speranze dei riferimenti internazionali del tempo, sovietici in primis. La seconda, assi meno apprezzabile (anzi decisamente criticabile) quella di un movimento politico che ha spesso contrastato evoluzioni positive del Vecchio Continente: basi ricordare la freddezza totale verso i passi dell’integrazione europea, sin dai primi vagiti di quella che diventerà la moneta unica (SME, fine anni Settanta).

Però Amato giustamente richiama ed esalta il lavoro di Napolitano, perché ne riconosce le difficoltà e, quindi, ne loda il coraggio politico.

Ma proprio per questo io dico che occorrerebbe ragionare diversamente sull’oggi, guardando con occhio nuovo a quanto stanno facendo (ognuno con i suoi riti e le sue versioni) le forze politiche di destra un po’ in tutta Europa.

E qui arriviamo al tema dell’immigrazione, vero spartiacque della politica contemporanea. La tesi di Amato è nobile ma sottovaluta due fenomeni decisivi. Il primo è che mille migranti sono un’opportunità, centomila migranti sono un fenomeno da gestire, cento milioni di migranti sono uno sconvolgimento sociale, religioso, economico e di ordine pubblico: quindi una rivoluzione politica. Il secondo è che questo è il tema che sta influenzando tutto il confronto elettorale occidentale, con effetti semplicemente sconvolgenti e capaci di produrre forze politiche future improntate a risposte ancor più radicali sul tema.

Ricordiamoci sempre che la paura è fenomeno dalla forza spaventosa, perché diventa rabbia e poi intolleranza, come accadde a metà degli anni Venti del secolo scorso nella Germania umiliata dopo la guerra (persa).

Arrivo allora al punto centrale della mia riflessione. Un dibattito sano comprende certamente le critiche più severe a Giorgia Meloni che oggi dice cose che non avrebbe mai detto quand’era all’opposizione o le obiezioni più argute a Matteo Salvini e ai suoi rapporti internazionali (Marine Le Pen in testa) o alle giravolte del suo partito (cos’è rimasto della Lega Nord di Umberto Bossi: niente tranne il nome). Così come si può e si deve contestare a Forza Italia un linea a Bruxelles che diventa subito un’altra a Roma (alleanza “Ursula” versus alleanza “Meloni”).

È però innegabile un lavoro (e qui torniamo a Napolitano) di “cucitura” che le forze politiche di destra stanno facendo tra istanze spesso estreme e sistema istituzionale interno e internazionale. Si guardi al ruolo di Giorgia Meloni sul dossier Ucraina o a quello di Antonio Tajani verso l’Unione europea e le sue capitali più importanti. Ma vale anche per Salvini (e Giancarlo Giorgetti, che sempre della Lega è), perché, piaccia o meno ai villeggianti di Capalbio, con le destre europee (Le Pen compresa) è giusto parlarci ed è anche giusto ascoltarli.

Non si capisce perché altrimenti è nobile il lavoro di quelli come Napolitano che hanno convissuto con un’internazionale comunista che ha accolto alcuni dei peggiori dittatori del Novecento (l’elenco è sterminato, anche fuori dall’Europa: Pol Pot, due milioni di morti su sette milioni di cambogiani, si proclamava comunista, non certo fan dei Ricchi e Poveri), mentre è disprezzabile lo sforzo a destra di oggi, dove si cerca (è il senso anche del dialogo tutt’altro che semplice in Spagna tra Vox e popolari) di fare qualcosa di simile, pur in presenza di condizioni storiche assai diverse.

A destra dovrebbero rivendicare con maggiore energia tutto questo, perché se è vero che le élite (varie) non sono così onnipotenti e anche vero che sottovalutarle è peccato mortale. Perché poi si finisce per reagire nervosamente a discorsi su governi tecnici che allo stato sono semplicemente lunari.

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