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Potenze alla prova del potere

Ci troviamo in una fase di transizione internazionale che si protrae da oltre due decenni, a partire dalla fine della Guerra fredda. Quell’era di rivalità strategica tra Usa e Urss lasciò il campo ad un’era in cui gli Stati Uniti possedettero molto più potere di qualsiasi altro Paese, godendo di un grado di influenza senza precedenti. Il momento unipolare americano ha poi dato luogo ad un mondo che è meglio descrivibile come non-polare, in cui il potere è ampiamente distribuito tra quasi 200 Stati e decine di migliaia di attori non statali, da Al Qaeda ad Al Jazeera e da Goldman Sachs alle Nazioni unite.
Ma ciò che distingue un’era storica dall’altra è più il grado di ordine tra e all’interno degli Stati che la distribuzione del potere stesso.
 
L’ordine non emerge mai, semplicemente: è il risultato di sforzi consapevoli da parte delle maggiori potenze del pianeta. Certo l’America rimane, presa singolarmente, la maggiore potenza, ma non può mantenere, e tantomeno espandere, la pace e la prosperità internazionali con i suoi soli sforzi. È sovra-estesa, dipende in misura massiccia dall’importazione di dollari e petrolio, e le sue forze armate sono impegnate in conflitti difficili in Afghanistan ed Iraq. L’America manca dei mezzi e del consenso politico necessario per fare di più in termini di responsabilità globali. Manca anche dei mezzi e del consenso politico per spingere gli altri a seguire la sua leadership. Inoltre, i problemi di oggi – per esempio, contrastare efficacemente la diffusione di materiali e armi di distruzione di massa, mantenere aperta l’economia mondiale, rallentare il cambiamento climatico e combattere il terrorismo – non possono essere gestiti, e meno che mai risolti, da un singolo Paese. Solo degli sforzi collettivi possono far fronte a sfide collettive; più la risposta sarà globale, più sarà alta la possibilità di successo. In breve, gli Usa hanno bisogno di partner se vogliono che il ventunesimo secolo sia un’era in cui la maggioranza degli esseri umani godano di relativa pace e di livelli di vita soddisfacenti. Ma la partnership che prevalse durante la Guerra fredda – tra Stati Uniti, Europa occidentale e numerosi Paesi asiatici, tra cui Giappone, Corea del Sud e Australia – non è più adeguata. Questi Paesi non hanno le risorse, e spesso la volontà, di gestire la maggior parte dei problemi globali. E così i vecchi alleati hanno bisogno di nuovi apporti. Le potenze emergenti hanno il potenziale per soddisfare questa esigenza. La questione è: Cina, India, Brasile e altri cosa sono pronti a fare della loro crescente forza? Ciò che rende grande un Paese non è la dimensione del suo territorio, la popolazione, l’esercito o l’economia, ma come utilizza il suo potere per forgiare il mondo che sta fuori dai suoi confini. Le potenze emergenti tendono a guardare alla politica estera come a poco più che ad una copia della politica interna, e ad un modo per accedere a mercati e risorse necessari per un rapido sviluppo.
 
In linea generale, ciò è comprensibile, ma miope. Le potenze in ascesa non possono isolarsi da ciò che accade fuori dai confini. Che lo accettino o no, hanno un interesse all’ordine mondiale. Guardiamo alla Cina, per molti versi la più significativa delle potenze in ascesa. Vuole mantenere un accesso preferenziale alle risorse energetiche dell’Iran, ma se dalle aspirazioni nucleari iraniane dovesse discendere una situazione di conflitto, la Cina pagherebbe molto più per quelle risorse.
La Cina non è un’eccezione. Simili problemi si ritrovano in India e Brasile. E non sono soltanto i Paesi in via di sviluppo ed emergenti che devono riconsiderare il loro approccio internazionale. Anche gli Usa devono farlo. Mentre molto è stato detto e scritto sulla richiesta americana che la Cina diventi uno stakeholder globale, la Cina non si limiterà a svolgere un ruolo ausiliario in un mondo definito dagli Stati Uniti; vuole invece stabilire le regole e creare le istituzioni per applicarle.
Spetta agli Usa lavorare con la Cina e altri Paesi per questo scopo, e ciò implica che l’America sia aperta agli interessi e al ruolo maggiore di altri attori internazionali. Il rafforzamento del G20 è un passo nella direzione giusta, ma molti altri cambiamenti sono necessari, inclusa la ristrutturazione delle Nazioni Unite, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, in modo che anch’essi riflettano la nuova distribuzione del potere. In cambio, sarà necessario stabilire nuovi equilibri con i Paesi emergenti in modo che essi possano contribuire di più alla questione del cambiamento climatico, al pagamento delle missioni di peacekeeping e di state-building, alla promozione del commercio internazionale, e alle sanzioni contro chi supporta il terrorismo e sviluppa armi di distruzione di massa. Le maggiori potenze di questa nuova fase, siano sviluppate o emergenti, hanno la capacità di raggiungere un accordo sulle questioni internazionali dirimenti. Dipende dalla loro volontà di perseguirlo se e come questo periodo di transizione globale finirà e che cosa seguirà.
 


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