Da un rapporto del Csis emerge come le società tecnologiche di Pechino abbiano avuto dei problemi derivanti dai divieti all’export voluti da Donald Trump e Joe Biden. Huawei anche non ne è esentata, ma allo stesso tempo, con il lancio del suo smartphone Mate 60 Pro, è rientrata nella partita sul 5G. Le lezioni che l’America deve imparare per risolvere i problemi sono diverse
“Nonostante le azioni intraprese lo scorso anno dal Dipartimento nella Entity List, Huawei e le sue affiliate straniere hanno intensificato gli sforzi per minare queste restrizioni, basate sulla sicurezza nazionale, attraverso uno sforzo di indigenizzazione. Tuttavia, questo sforzo dipende ancora dalle tecnologie statunitensi”. Nelle parole dell’ex segretario al Commercio, Wilbur Ross, è sintetizzato il grande problema che gli Stati Uniti hanno di fronte ai divieti sull’export verso la Cina. Si tratta probabilmente di una delle misure più importanti dell’amministrazione guidata da Joe Biden, per cercare di frenare l’ascesa di Pechino. O almeno, che questa non avvenisse con l’aiuto di Washington, che metteva al servizio della superpotenza rivale strumenti tech in grado di portarla allo stesso piano, oltre che supportarla indirettamente per le sue attività militari. Ebbene, si può dire che il Mate 60 Pro lanciato da Huawei è la dimostrazione delle numerose falle presentate dalle restrizioni.
Lanciato lo scorso 29 agosto, questo nuovo telefono ha messo in allarme la sicurezza nazionale americana. Il motivo è presto detto: al suo interno contiene un chip 7nm, il Kirin 900S realizzato in modo rudimentale e limitato dalla Semiconductor Manufacturing International Cor, Smic, rilanciando di fatto il colosso cinese nella partita sul 5G. Proprio quella da cui gli Stati Uniti volevano espellerla. Ma il cartellino estratto, per ora, è il giallo.
A leggere i numeri racchiusi nel rapporto del Center for Strategic & International Studies (Csis), intitolato “In chip race, China gives Huawei the Steering Wheel: Huawei’s New Smartphone and the future of semiconductor export controls”, si può infatti capire come l’obiettivo sia stato centrato a metà – e il rischio finale è di non raggiungerlo. Tra il 2020 e il 2021, il fatturato di Huawei è diminuito del 28,5% e la perdita maggiore è stata riscontrata negli smartphone, proprio per via del fatto che l’azienda non poteva più avere accesso alle tecnologie 5G. Agli albori di quest’anno, il calo nelle vendite era dell’88% (30 milioni di vendite contro le 240 milioni di quattro anni fa).
Tuttavia, l’appoggiarsi ad aziende spin off per le sue attività legate agli smartphone e ai server ha permesso a Huawei di tenersi semiconduttori di scorta da reindirizzare per le sue priorità. Anche Smic ha iniziato a mettere da parte macchinari e pezzi di ricambio. Si è poi aggiunta una ricerca spasmodica su mercati alternativi a quelli americani, anche se non è del tutto così. Come sottolineato dallo stesso Dipartimento del Commercio nel 2019, gli effetti delle restrizioni volute prima da Donald Trump e poi da Joe Biden – forse una delle pochissime eccezioni su cui i due possono dirsi d’accordo – i vari Intel, Qualcomm e Xilinx hanno continuato a vendere molti dei loro chip di ultima generazione a Huawei, pur rimanendo nel perimetro delineato dalla legge. La spiegazione è semplice: i chip non erano prodotti negli Stati Uniti e pertanto non erano inclusi nella black list di quelli vietati alla vendita alla Cina.
Quest’ultima ha dato ulteriore dimostrazione di saper cogliere il massimo dai rivali, affidandosi ai software di progettazione statunitense per iniziare a realizzare i propri semiconduttori, anche al di sotto dei 14nm. Come viene spiegato nel rapporto, le ripercussioni che le aziende americane stanno riscontrando non sono dovute tanto allo stop delle vendite, quanto piuttosto alla capacità di Pechino di riadattarsi senza dover chiedere aiuto a nessuno. Non è stata solo Huawei a cercare una scappatoia, ma anche le altre sorelle cinesi come Yangtze Memory Technologies Corporation (Ymtc), aggiunta nel 2022 tra quelle a cui era impossibile acquistare attrezzatura americana, salvo incappare in una violazione della legge. Peccato che questa sia riuscita comunque a reperire materiale per vie traverse, come quelle giapponesi e olandesi, oltre al fatto che erano anni che si stava preparando alla mannaia di Washington.
I progetti sul tavolo sono diversi e spaziano dai software di progettazione dei chip Eda all’attrezzatura per la produzione di semiconduttori; dagli impianti di produzione alle loro progettazioni; dallo sviluppo dei software di Intelligenza Artificiale ai modelli di IA; dal cloud computing ai sistemi hardware per computer, smartphone e data center.
In questo modo, Huawei è riuscita a rientrare in gioco. Ci sta riuscendo grazie a una serie di investimenti massicci da parte del governo cinese, che sta puntando tantissimo sul settore tech. A settembre, tanto per ricordarne uno, è stato annunciato un nuovo fondo statale da 40 miliardi di dollari, anticipato dalla decisione di detassare le aziende statali cinesi che fanno ricerca e sviluppo sui semiconduttori. Sempre i funzionari del governo pechinese, inoltre, stanno chiedendo che vengano acquistati quanti più prodotti nazionali. Il divieto di utilizzare dispositivi Apple in tutte le imprese statali la dice lunga su questa politica.
“Non rilascerò commenti sul chip in questione [7nm, ndr] fino a quando non avremo maggiori informazioni sulle sue caratteristiche e sulla sua composizione”, ha dichiarato il mese scorso il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan. L’essere rimasti sorpresi appare proprio il punto di debolezza numero uno degli Stati Uniti. Il fatto che non si sappia se una misura stia dando gli effetti desiderati o meno è una grave mancanza, che potrebbe rendere il problema ancor più grande di come si presenta.
Ricevere informazioni è infatti essenziale per cercare di risolvere questa situazione. Senza, non si può comprendere in che modo le aziende cinesi stanno accorciando il divario nonostante i divieti; non si può sapere con precisione in che modo aggirino le sanzioni e, nel caso, se ci sia qualcuno che le sta aiutando, peggio ancora se fuori i confini cinesi; non si può conoscere a che tipo di sovvenzioni e contromosse sta pensando il governo cinese; non si può dire con certezza se le misure, adottate dall’amministrazione Trump prima e quella Biden poi, abbiano ripercussioni sulle aziende americane. Punti interrogativi che andranno sciolti il prima possibile.