Il mondo arabo ha reagito in modo controllato all’attacco di Hamas. In generale non c’è stato un sostegno netto a favore di Israele, e molti come Hezbollah hanno cavalcato i propri interessi. Per Matteo Bressan (Lumsa/Ndcf), occorre leggere il senso politico e strategico di certi messaggi
La reazione del mondo arabo all’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele dimostra come la questione sia non solo interna — come ovvio che in parte sia, visto che combatte il gruppo terroristico che controlla la Striscia contro le forze del governo democratico israeliano — ma di carattere regionale. Lo è per i riflessi che potrebbe avere su alcuni dossier ed equilibri in costruzione e ancora di più dopo l’apertura del fronte libanese, come ci ha spiegato Ella Waweya, capitano del Tsahal. I processi di avvicinamento tra Israele e mondo arabo sono ben più complessi di quanto spesso emerge tramite narrazioni ottimistiche (o superficiali).
Da tempo fonti governative israeliane avevano messo in guardia sul rischio che un’azione asimmetrica organizzata su tutti i fronti potesse colpire il Paese. Era una percezione frutto di monitoraggi di intelligence, movimenti di miliziani e armi, contesto politico diplomatico. Una consapevolezza anche legata all’umore di parte degli arabi.
Hezbollah, gruppo politico armato libanese in guerra con Israele dal 2006 e parte delle azioni (per ora solo di disturbo) al nord del Paese, ha messo insieme il quadro complesso con una dichiarazione sferzante mentre l’attacco palestinese (soltanto palestinese?) era ancora in corso. Hamas manda un messaggio a coloro che stanno lavorando per la normalizzazione delle relazioni con Israele, dicono i guerriglieri politici sciiti libanesi.
Ossia, per il Partito di Dio di Beirut, l’azione del gruppo terroristico che controlla la Striscia di Gaza si rivolge a coloro che sono coinvolti negli Accordi di Abramo (Emirati, Bahrein, Marocco) e potenzialmente all’Arabia Saudita. Riad ha intrapreso un percorso di normalizzazione — mediato dagli Stati Uniti — che potrebbe portare a uno sviluppo storico per il Medio Oriente, e non solo.
“Dobbiamo analizzare il senso politico strategico di queste dichiarazioni, così come i messaggi della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, per capire la portata di quanto sta accadendo o potrebbe”, commenta Matteo Bressan, docente di Studi Strategici alla Lumsa Master School e analista della Nato Foundation. “Questo non significa automaticamente che Hezbollah così come altre milizie sciite operanti in Siria siano pronte, al di là del lancio di razzi dal Sud del Libano di questa mattina, ad aprire un ulteriore fronte con Israele”.
Per Bressan, quello che però è emerso dall’attacco di Hamas — “e che conferma le preoccupazioni di lunga data degli analisti israeliani” — è che “non esiste nessun sistema di difesa a zero rischi”. “Queste considerazioni, frutto dei più di 3000 razzi lanciati da Hamas, così come delle più di 400 vittime israeliane, rendono l’idea di cosa potrebbe rappresentare l’apertura di un fronte con Hezbollah, miliza decisamente più preparata di Hamas non soltanto per le esperienze acquisite nella guerra del 2006 ma per le operazioni condotte in Siria (dal 2011) accanto alle forze di Assad, dei russi e degli iraniani”.
Israele e gli arabi
La normalizzazione di cui parla Hezbollah dovrebbe essere anche una forma di stabilizzazione di tensioni storiche tra arabi ed ebrei — oltre che una forma di crescita delle potenzialità dei singoli attori interessati e di altri “satelliti” regionali. Ma ci sono forze interne a vari angoli del mondo arabo che si pongono in posizione avversa. Per primo l’Iran, che finanzia Hamas (e Hezbollah) e ha cercato di giocare di anticipo mediando — tramite la piattaforma diplomatica offerta da Pechino — il riavvio delle relazioni con il regno saudita.
Ma non c’è solo Teheran. Per esempio, Doha con un comunicato stampa ha addossato le responsabilità di ciò che accaduto su Israele: “Unico responsabile dell’escalation”, scrive l’emirato della famiglia al Thani, che offre ospitalità e uffici diplomatici al gruppo radicale palestinese. Il riferimento è all’atteggiamento tenuto dal governo Netanyahu — sostenuto anche da gruppi nazionalisti ultra sionisti — nei confronti della questione palestinese.
Per quanto rassicurando di essere in ogni maniera contro ogni genere di attacco che coinvolge i civili, anche l’Arabia Saudita ha fatto una dichiarazione ambigua, definendo gli israeliani “forze di occupazione” (dei territori palestinesi) e scegliendo una semantica riconoscibile per il mondo arabo. Riad intende bilanciare tra il rapporto in costruzione con Israele e il suo ruolo nel mondo arabo, custode dei luoghi sacri islamici. Di più: i sauditi vogliono evitare sbilanciamenti per non essere considerati target di potenziali attacchi.
Emirati e Bahrein, ma anche Kuwait e Oman, hanno tutti tenuto un atteggiamento ambiguo. Non hanno apertamente condannato l’azione di Hamas, hanno più o meno apertamente sottolineato che Israele è corresponsabile delle tensioni. Tra le voci, ufficiali e non, emergono quelle di chi come Abdulkhaleq Abdulla, tra i più influenti politologi emiratini, parla di “diritto legittimo” del popolo palestinese che resiste all’occupazione dei coloni e dice “preghiamo per la vittoria, oh eroi della resistenza”.
Abu Dhabi, Paese che ha ormai un rapporto di partnership con Israele, ha chiesto semplicemente una de-escalation — come se il governo Netanyahu potesse essere disposto a evitare una reazione dura contro quello che già viene indicato come il 9/11 israeliano.
Davanti a queste complessità, Benajamin Netanyahu ha fatto sapere di essere pronto ad allargare l’esecutivo, offrendo dunque spazi a figure di alto rilievo come Benny Gantz e Yair Lapid. Se da un lato questo può essere letto come una risposta di unità nazionale davanti a un’emergenza storica, dall’altro può essere considerato un modo per estromettere alcune figure dell’esecutivo che creano percezione negativa di Israele tra quel mondo arabo che non si è allineato con la difesa integerrima di Gerusalemme?