Per il think tanker americano, c’è una serie di domande — dal futuro della Striscia ai nuovi fronti, dall’integrazione regionale alla politica interna — che Israele si sta ponendo nel decidere tempi e metodi della controffensiva contro Hamas
Quando Hamas ha sferrato l’attacco più sanguinoso della storia di Israele, William Wechsler stava atterrando a Tel Aviv. In qualità di direttore del Rafiki Center e dei programmi sul Medio Oriente dell’Atlantic Council stava arrivando da Washington per una conferenza sull’integrazione economica regionale. “Sono arrivato qui sabato e ho trovato un Paese che si stava a fatica riprendendo dall’attacco militare a sorpresa più significativo degli ultimi cinquant’anni. La nostra conferenza è stata rinviata e Israele si sta preparando per la guerra. Che differenza fa una giornata”, dice in un suo “dispatch” da Tel Aviv.
Formiche.net lo ha raggiunto via mail, mentre si imbarcava a Gerusalemme su un altro volo verso un altro Paese della regione, per un’analisi della situazione dal posto, con un’ottica orientata agli scenari attuali e futuri.
Israele ha lanciato una controffensiva su Gaza. Ferito al cuore, con quasi mille morti e centinaia di rapiti, lo schiaffo psicologico è stato enorme. Quanto successo ha dimensioni storiche, segnerà il futuro del Paese. Attualmente la Striscia è assediata, circondata dalle forze israeliane che hanno tagliato ogni genere di fornitura — compreso beni alimentari e sanitari — ai due milioni di cittadini che vivono nel territorio palestinese amministrato dal 2017 da Hamas, gruppo radicale terroristico con collegamenti vari (tra cui quelli con i Pasdaran).
“Da un punto di vista puramente militare, Hamas ha perso la guerra nel momento in cui ha deciso di avviarla. Israele è una potenza di gran lunga superiore, e all’indomani degli attacchi terroristici di Hamas, il pubblico israeliano appare profondamente scioccato, incredibilmente unito e fermamente risoluto nel lavoro da fare”, spiega Wechsler.
Sono circolate immagini brutali, violenze gratuite quanto efferate nei confronti delle vittime e dei rapiti. L’azione di Hamas era progettata per suscitare scalpore, traumatizzare il pubblico israeliano, aumentando quella percezione di precarietà che caratterizza quell’ambiente. È il terrorismo che diventa guerra asimmetrica. L’opinione pubblica ha pochi dubbi, la ritorsione è legittima; e i politici israeliani, componenti di uno spettro polarizzato da divisioni e interessi, concordano adesso sull’emergenza nazionale che richiama all’unità.
Su questa base emozionale, perfino esistenziale, vanno valutati gli scenari futuri. Ma mentre la reazione è questione identitaria — e non conta il colore dell’esecutivo al potere in questo momento — la pianificazione oltre alla controffensiva militare è ciò che cambierà il senso della storia. Ammesso che Israele riesca nell’intento di liberare Gaza da Hamas, poi chi governerà — e come — la Striscia?
Wechsler ricorda che il disimpegno israeliano da Gaza (nel 2005) era già considerato un errore strategico da alcuni analisti. “A quanto pare però non c’è un chiaro accordo sull’alternativa, per ora. Alcuni potrebbero sostenere un’occupazione parziale, mentre altri potrebbero spingere per rinnovare gli sforzi di insediamento, entrambi con svantaggi significativi. Si potrebbe anche suggerire di reintrodurre il controllo dell’Autorità Palestinese su Gaza, ma questo pone delle sfide, dato che l’Autorità ha già difficoltà in Cisgiordania. Infine, alcuni potrebbero proporre di introdurre un nuovo leader che si opponga sia ad Hamas che all’attuale leadership di Fatah (l’organizzazione politico-militare che controlla la Cisgiordania, ndr). La situazione rimane incerta e si spera che alla fine prevalgano le decisioni razionali”, spiega Wechsler.
Intanto, mentre il focus militare è sulla Striscia, si mobilitano anche altri fronti. Dal Libano, a nord di Israele, sono arrivati alcuni attacchi condotti da Hezbollah — partito/milizia collegato ai Pasdaran, che fornisce logistica ad Hamas perché hanno in comune il “nemico sionista”. Le forze israeliane hanno reagito. Il rischio di un’apertura di fronti multipli c’è, perché anche verso la Siria, sulle Alture del Golan, sono presenti altre formazioni armate anti-israeliane collegate alle forze teocratiche iraniane (e ai libanesi e ai palestinesi).
“L’unico modo per Hamas di raggiungere i suoi obiettivi strategici è che il conflitto si allarghi. La notizia, tutta da verificare, che Teheran avrebbe consigliato e approvato gli attacchi 10/7 (la sigla richiama a un 9/11 israeliano, ndr) non è affatto sorprendente, ma è stato notevole che fossero coinvolti insieme membri anziani di Hamas e Hezbollah e un consigliere del governo siriano. L’Iran vuole chiaramente questo, probabilmente sperando di innescare una reazione israeliana con conseguente guerra regionale”, dice il think tanker americano.
Qui si apre uno scenario ulteriore. Mentre la USS Ford arriva in Medio Oriente anche come forma di deterrenza contro coinvolgimenti più ampi, per Israele si pone anche il problema di sostenere a livello internazionale le proprie azioni militari. Se da un lato l’Occidente ha reagito in modo compatto, ancora una volta, in difesa di una democrazia attaccata, dall’altro c’è una porzione di mondo — come quello arabo, africano e asiatico — che ha cercato equidistanza. E poi c’è da evitare che la controffensiva sia più scioccante dell’attacco subito, perché in generale contro Israele ci sono costanti attenzioni e sensibilità etiche e pregiudiziali anche in Occidente. E in definitiva, come può Israele garantire che le percezioni sull’esito della guerra non compromettano gli sforzi per promuovere una maggiore integrazione regionale?
“I diplomatici israeliani hanno molta familiarità con il fatto di trovarsi al centro di narrazioni straniere ingiuste che cercano di delegittimare il diritto all’autodifesa del Paese”, dice Wechsler. “Per questo motivo, stanno già valutando la ‘finestra di legittimità’ per la guerra, il periodo di tempo durante il quale le sue azioni saranno generalmente considerate appropriate dai governi stranieri a cui tengono di più. Le dinamiche di questa sfida sono generalmente ben comprese, ma la presenza di così tanti ostaggi stranieri presenta una nuova serie di potenziali problemi”.
L’altro grande tema collegato: le conseguenze sulla politica interna. Che impatto avrà questa guerra sulla politica interna e sull’identità nazionale di Israele? Questa guerra sposterà la politica israeliana ancora più a destra? O i leader sfrutteranno l’opportunità di creare una coalizione di unità nazionale — processo che sembra già iniziata a muoversi — e di iniziare il processo di allontanamento dalle divisioni del Paese? “Non è facile rispondere a nessuna di queste domande. Ma è incoraggiante sapere che gli israeliani stanno iniziando a porsele anche prima dell’inizio della guerra”, chiude Wechsler.