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L’occasione di una nuova Costituente

Le leggi elettorali non sono strutture normative indifferenti alla politica ma, al contrario, la originano, la plasmano, la orientano verso approdi di sistema ispirati dai principi in esse contenuti. Non a caso i padri costituenti presero in considerazione l’ipotesi di costituzionalizzarle nella versione proporzionalista, risolvendosi, alla fine, ad approvare un ordine del giorno che ne adottava la formula, pur senza concederne l’ingresso nella Carta (odg Giolitti), circostanza che ne avrebbe, a motivo della sua natura “rigida”, impedito un eventuale aggiornamento con le forme della legge ordinaria, in coerenza con le possibili modificazioni della realtà politica.
 
Ma questa sorte non è riuscita a togliere dignità costituzionale alle leggi elettorali, che rappresentano il vero e proprio cardine del sistema politico e anche dell’assetto ordinamentale italiano. Che venne interamente plasmato dal principio proporzionalista: non c’è una particola dello Stato-ordinamento che non sia intrisa di quel principio, vero e proprio punto di approdo delle principali culture politiche protagoniste della stagione costituente, la cattolico-democratica, la marxista e la liberale. Del resto buona parte dell’Europa democratica uscita dalla rovinosa guerra nazifascista, e non solo l’Italia, aveva scelto di aderire al sistema della democrazia consensuale di impianto kelseniano, fondato sui partiti e contrapposto “teleologicamente” al sistema leaderistico. E il sistema kelseniano trovava nella proporzionale lo strumento naturale per l’espressione della rappresentanza democratica. La proporzionale con liste concorrenti e voto di preferenza multiplo, dunque, ha fatto la democrazia italiana, creando le condizioni per lo sviluppo civile ed economico di un Paese che per vent’anni era rimasto lontano dal consorzio delle nazioni più avanzate.
 
Nel 1993 il referendum elettorale antiproporzionalista spazzò via, dopo 47 anni, quel sistema sulla base della suggestione fortemente sostenuta dal circuito mediatico, secondo la quale cambiando la formula elettorale si sarebbe modernizzato il Paese e cancellata la corruzione rivelata da Tangentopoli. Un coro di peana si levò per cantare le virtù salvifiche del maggioritario taumaturgicamente invocato a fare da balsamo a tutti i mali italiani. Le (poche) voci che si sollevarono per obiettare al pensiero (quasi)unico venivano soffocate dalle ingiurie o, al minimo, tacciate di passatismo.
 
Ma il “legato” più urticante di questo tempo resta il corrompimento della dialettica politica, la sua regressione a conflitto, carico di violenza, di istinti pregiudiziali, di irrazionalità, l’alterazione del linguaggio, persino, il suo involgarimento e la sua perdita di senso. Chiuso ingloriosamente il ciclo berlusconiano, che di maggioritario e di bipolarismo si è nutrito addirittura rappresentandone l’incarnazione italiana, resta il complicato bilancio di questo tempo in cui le nuove leggi elettorali, prima il Mattarellum e poi il Porcellum, hanno forzato e alterato la struttura costituzionale, producendo scenari devastanti.
 
A cominciare dalla presenza nella scheda elettorale del nome del capo della coalizione, che introduce un elemento surrettizio di presidenzialismo totalmente estraneo alla Costituzione, fino alla sovrapposizione dello spirito maggioritario all’indole proporzionalista di tutte le strutture istituzionali, dalla concezione stessa della rappresentanza scolpita in Costituzione, fino ai regolamenti parlamentari, concepiti ai tempi della democrazia “consensuale” e mai modificati nella loro sostanza, così da lasciar rappresentare tutto l’andamento dei lavori parlamentari come un coreografico minuetto allestito da vetusti dignitari bizantini. Insomma: è cambiato (in peggio) tutto ma si è lasciato intatto ogni strumento istituzionale concepito per quel che c’era prima e, vale a dire, l’altro mondo proporzionalista.
 
Dopo la sacrosanta dichiarazione di inammissibilità, da parte della Consulta, dei quesiti referendari ispirati al “misticismo” della resurrezione del Mattarellum, dunque, torna in agenda il tema dell’urgenza di una riforma elettorale, sollecitata dalle più alte magistrature dello Stato e dalle regole di base del buon senso. Quali che siano le posizioni occorrerà considerare che: 1) la nuova legge deve rendersi sì compatibile con un modello istituzionale ancora indefinito (bicameralismo perfetto? Monocameralismo? Numero ridotto di parlamentari?), ma potrà operare senza troppo danno in questo o in un diverso contesto ordinamentale: insomma non si usi questo alibi per non farla; 2) il contesto storico che abbiamo di fronte somiglia, per la sua proiezione istituzionale, a quello dell’Italia dopo la caduta del fascismo: oggi, come allora, è finito un sistema.
 
Occorrerebbe, probabilmente, eleggere una nuova Assemblea costituente per riscrivere le regole del gioco della II parte della Costituzione. Sicuramente, però, le forze politiche si trovano oggi in una condizione simile a quella dei partiti nella stagione della Costituente. Allora si scelse la proporzionale per consentire che ogni forza potesse contare su una rappresentanza esattamente corrispondente al peso che aveva nel Paese, senza artificiosi vantaggi per alcuno; 3) il diciassettennio alle spalle è una storia di fallimenti politici: ha archiviato il “bipolarismo” e il “direttismo” che da esso è inevitabilmente scaturito. La nuova legge elettorale non potrà non prendere atto di questa realtà, evitando di forzarla a vantaggio di forze che “ieri” risultavano maggioritarie in Parlamento; nessuno pensi più, neanche per un esercizio teorico, di sottrarre la scelta di ogni singolo rappresentante al legittimo giudizio del corpo elettorale.
 
Questi, dunque, i punti nodali ora sul tavolo del difficile confronto tra le forze politiche.
E che nessuno pensi di “sfangarla”, facendo finta di impegnarsi a lavorare per una formula che non trova convergenze per cui, alla fine, non resterebbe altro che tornare a votare col sistema che c’è!


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