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Le riflessioni del Cnel sul salario minimo non sono esaustive. L’analisi di Zecchini

Benché le riflessioni del Cnel non tocchino le implicazioni macroeconomiche di un dato livello di salario minimo, queste sono molto rilevanti e da tener presente da parte del legislatore, perché coinvolgono le dinamiche di costi e di prezzi, ed impattano sulla spesa pubblica e sulla tassazione. L’analisi di Salvatore Zecchini

In risposta al mandato ricevuto dal governo, il Cnel ha presentato per l’approvazione in Assemblea le sue Riflessioni sul Salario Minimo (SM) per legge, una relazione che ha molti pregi, ma che non copre tutto il campo di indagine per giungere a una decisione ponderata, ben sapendo che in ogni caso a decidere saranno le forze politiche. Né sul piano sociale, né su quello economico, infatti, emergono nella sua analisi argomentazioni che rendono l’introduzione per legge di un SM come la soluzione ineludibile, oppure obbligata, per raggiungere l’obiettivo di una equa retribuzione. Piuttosto, correttamente inquadra la questione su una dimensione molto più ampia di ridefinizione di diversi aspetti del sistema retributivo che presiede ai rapporti di lavoro, naturalmente dando grande rilievo alla contrattazione collettiva e al ruolo del Cnel stesso. Non si tratta tanto di risolvere la questione salariale con “soluzioni semplicistiche”, ovvero un sì o un no al SM, sostiene il Rapporto, quanto di considerare tutte le componenti rilevanti. Mentre invoca questa visione d’insieme, aspetti di grande importanza, quali le conseguenze dell’adozione del SM per il sistema economico, per l’occupazione, per le imprese e gli investimenti, e anche per la finanza pubblica non sono presi in considerazione.

Un pregio di questo lavoro è ad ogni modo evidente: si presenta una chiara dissezione del problema, si sottolineano le limitazioni nella disponibilità di dati e si tracciano alcune proposte. L’impostazione delle riflessioni è centrata sul ruolo dominante della contrattazione collettiva, che già coprirebbe il 98% dei lavoratori, mentre non si hanno informazioni sul restante 2%. Quest’ultima componente comprende lavoro a bassa qualificazione, o non continuativo, o fuori dal campo della contrattazione standard.

Correttamente il Rapporto precisa che il sistema italiano risponde pienamente ai dettami dell’Ue sanciti nella Direttiva 2022/2041 e quindi l’Italia non è tenuta né a introdurre per legge un minimo salariale, né a varare un piano per potenziare la contrattazione. In termini di livelli dei minimi contrattuali, quelli italiani superano i due parametri assunti a riferimento dalla Direttiva, ovvero 7,10 euro che corrispondono alla metà della retribuzione media nel 2019, e 6,85 euro pari al 60% del salario mediano. Né ha gran rilevo che i contratti “pirata” permettono minimi più bassi, in quanto hanno un campo di applicazione marginale. Neppure l’attuale mancanza di rinnovo dei contratti standard per il 54% dei lavoratori altera la sostanziale osservanza da parte del Paese della Direttiva, perché nelle more le imprese concedono alcune forme di compensazione.

Nondimeno, vi sono aree problematiche che sono portate all’attenzione dei governanti. In particolare, sono emerse discordanze tra le parti rappresentate nel Cnel su quali voci retributive vadano tenute in conto nel fissare i livelli salariali minimi. A seconda di quelle che si vuole includere, perfino le proposte correnti di minimi a €9 e a €10 l’ora potrebbero essere inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali (Ccnl). Altra questione verte su quale sia il soggetto più indicato a stabilire questi livelli: a giudizio del Cnel, questo non può che essere individuato nelle parti della contrattazione collettiva.  Ancor più cruciale è considerare il ruolo del minimo salariale in funzione del raggiungimento di un adeguato trattamento retributivo che consenta di soddisfare sia il dettato costituzionale di “assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, sia l’obiettivo della Direttiva europea di contribuire alla riduzione delle disuguaglianze retributive. Pertanto, l’approccio del Cnel si dilata all’intera politica retributiva, in cui vengono compresi il welfare aziendale e la contrattazione di produttività. Ne trae, quindi, la conclusione che sia urgente ed utile che si adotti un “piano di azione nazionale” che affronti la questione retributiva e “il nodo della produttività” e sarebbe la contrattazione collettiva la sede più appropriata per condurre in porto questo disegno.

Nell’impostazione del Cnel è assente, peraltro, ogni considerazione dal punto di vista del sistema economico nel suo insieme, del suo sviluppo in un contesto di rapidi avanzamenti tecnologici che riconfigurano i rapporti tra lavoro e tecnologia, dell’evoluzione qualitativa della domanda di lavoro delle imprese e della riduzione degli squilibri nella finanza pubblica ed aziendale. Si prospetta, invece, una visione parziale del problema, che va ampiamente integrata seguendo le categorie dell’equilibrio nello sviluppo e della sostenibilità nel confronto con la concorrenza nei mercati e con i nuovi rapporti di sostituzione tra lavoro poco qualificato e tecnomacchina.

La dimensione economica del problema tocca parecchi aspetti problematici, incluso il ruolo dei Ccnl e quello dei sindacati. Oltre a stabilire se ci siano ragioni cogenti per legiferare sul SM, vanno considerati lo scopo di questa misura, il confronto con soluzioni alternative, il livello a cui fissare la soglia salariale, la sua articolazione secondo diversi parametri, l’effetto sull’occupazione, sul costo del lavoro, sulle disuguaglianze retributive, e sui conti pubblici. Occorrono analisi ben più complesse di quelle del Cnel per rispondere a questi interrogativi cruciali, se il Paese non vuole azzardare provvedimenti che ne frenino ulteriormente la crescita.

Un primo dubbio da fugare è che sia possibile con lo stesso strumento del SM raggiungere una serie di obiettivi quali l’incremento effettivo delle retribuzioni, a lungo frenato da inflazione e bassa produttività, trattamenti salariali adeguati e dignitosi, lotta alla povertà, minori divari salariali e contrasto al lavoro “povero”. Sono traguardi molto differenti tra loro e che vanno perseguiti con misure specifiche per le categorie di prestazioni e di lavoratori interessati. Un livello “dignitoso” di SM può non garantire una retribuzione dignitosa se il numero di ore lavorate o la durata del rapporto di lavoro sono insufficienti.

Una soglia unica di SM per sé stessa non è nemmeno in grado di assicurare minori disparità salariali, in quanto non risulterebbe adeguata o appropriata di fronte alle diversità di qualifiche nelle prestazioni, di potere di acquisto tra regioni del Paese, di settore produttivo, di produttività e di condizioni aziendali, ad esempio per le piccole imprese. Anche le differenze nel grado di sostituibilità del lavoro con l’automazione incide sull’efficacia di un dato livello di SM, se il fattore lavoro può essere spiazzato interamente o parzialmente da investimenti tecnologici. Un livello “dignitoso” potrebbe addirittura approfondire il solco tra chi ha la sicurezza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e chi non trova un’occupazione o non lo trova stabilmente.

Non sono da trascurare neanche gli effetti sulla dimensione dell’economia sommersa. Una soglia in netto eccesso sulla produttività della prestazione potrebbe lasciare al lavoratore non qualificato come unica prospettiva di lavoro un eventuale impiego nel sommerso. Per altro verso, questo strumento è poco efficace per contrastare la povertà, un fenomeno diverso dal lavoro “povero” e che ha sue specificità, da trattare con interventi mirati sul complesso delle condizioni individuali e familiari che lo producono. Al contrario, lo strumento appare più adatto per ostacolare il lavoro scarsamente remunerato, ma la sua efficacia va comparata con quella di misure alternative che raggiungono lo stesso scopo senza comportare complessi calcoli ed effetti controproducenti.

Ad esempio, negli Usa dotta il SM e in UK che non lo adotta sono previste integrazioni al reddito per i lavoratori a bassa o medio-bassa remunerazione. In particolare, viene erogato un credito d’imposta sul reddito da lavoro (Earned income tax credit) che è immediatamente riscuotibile. Trattamento analogo con il Working Tax Credit nel Regno Unito. Oltre che nella garanzia di un reddito considerato come minimo socialmente accettabile, il pregio di queste alternative sta nel promuovere la ricerca o la permanenza nel lavoro di soggetti che altrimenti non sarebbero invogliati a lavorare per una paga insoddisfacente.

In questa ottica ogni confronto con altri paesi, che hanno introdotto per legge il SM, appare con poco fondamento. Austria, Svezia, Finlandia e Danimarca insieme all’Italia sono gli unici nell’Ue privi attualmente di questo vincolo. In quei paesi come nel nostro la protezione contro il lavoro “povero” si realizza con altri strumenti. Nel caso italiano, il compito è svolto in prima istanza dalla contrattazione collettiva, che viene applicata dai giudici anche verso i lavoratori non coperti dai Ccn, e in seconda istanza dall’estesa rete di protezione sociale fornita dal sistema di welfare. Ciascun paese membro ha le sue peculiarità da considerare nel decidere su quale strumento da utilizzare e sul come fissare il livello di minimo, differenziarlo secondo certe categorie ed adeguarlo nel tempo. Attualmente, nell’area dell’Ocse in 21 paesi sui 30 che lo applicano la soglia minima non rispetta il criterio del 60% del reddito mediano di un lavoratore a tempo pieno. Tra gli stessi paesi dell’Ue la dispersione tra i livelli è straordinaria: quello della Germania è di 5 volte più elevato di quello della Bulgaria (€2000 al mese contro €399).

Benché le riflessioni del Cnel non tocchino le implicazioni macroeconomiche di un dato livello di SM, queste sono molto rilevanti e da tener presente da parte del legislatore, perché coinvolgono le dinamiche di costi e di prezzi, ed impattano sulla spesa pubblica e sulla tassazione.

Individuare un livello “dignitoso” di soglia obbligatoria, differenziarla a seconda dei tipi di lavoro e di altri rilevanti criteri, e neutralizzare le sue possibili ripercussioni negative sullo sviluppo dell’economia e dell’occupazione è un esercizio molto intricato, di difficile determinazione e sempre opinabile. In essenza, decidere se e come adottarla resta una scelta squisitamente politica, che è soggetta a tante considerazioni, non ultima la convenienza nel momento politico. È comunque da evitare che sia assunta come vessillo per cavalcare un’onda populista inconsapevole della complessità del compito e delle conseguenze di ampia portata per il Paese. Giustamente il Cnel “suggerisce di evitare” che la questione “entri a pieno titolo nel vortice della comunicazione politica, in chiave di acquisizione del consenso, perdendo poco alla volta la sua attendibilità rispetto a parametri di sostenibilità economica e sociale.”

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