L’idea di fare di oggi, 17 ottobre, un giorno di digiuno per la pace e la riconciliazione, lanciata dal Patriarca latino di Gerusalemme e condivisa dalla Conferenza Episcopale Italiana a mio avviso ci libera da un condizionamento: ritenere determinante soltanto l’influenza esercitata dalle religioni sui popoli che le seguono e non vedere l’altrettanto importante influenza esercitata dai popoli sulle loro religioni
L’idea di fare di oggi, 17 ottobre, un giorno di digiuno per la pace e la riconciliazione, lanciata dal Patriarca latino di Gerusalemme e condivisa dalla Conferenza Episcopale Italiana a mio avviso ci libera da un condizionamento: ritenere determinante soltanto l’influenza esercitata dalle religioni sui popoli che le seguono e non vedere l’altrettanto importante influenza esercitata dai popoli sulle loro religioni. Così si può arrivare a credere nell’esistenza di uno scontro di civiltà. Davvero?
Quando nacque quasi dal nulla, improvvisa, la civiltà islamica ben presto si presentò nei panni della più tollerante, ovviamente per i parametri del tempo. Sentendosi padroni del presente e del futuro, con il vento in poppa, quei popoli al loro apogeo portarono al suo apogeo anche l’islam. Poi, con l’emergere della modernità, arrivò l’apogeo europeo, culturale e tecnologico, a consentire l’ammodernamento e l’apogeo del cristianesimo, che fu suggellato dalle grandi aperture del Concilio Vaticano II, che posero termine a un’epoca di difficoltà a svincolarsi dal passato.
Il cristianesimo ha imboccato una strada che lo ha reso un esempio di apertura, mentre l’arretramento arabo, in termini di progresso e benessere, ha prodotto una chiusura dell’islam, divenuto piano piano sinonimo di intolleranza. Non sorprende che sia stato un papa non europeo a trovare il modo di capirsi con il più autorevole teologo arabo musulmano, il rettore dell’Università Islamica di al-Azhar, che firmando il Documento sulla Fratellanza Umana di Abu Dhabi ha indicato alla sua fede una via per aiutare i suoi popoli a uscire dalla crisi che li avvolge.
Se questo è un esempio di come l’amicizia islamo-cristiana possa aiutare a curare i postumi dello scontro arabo-europeo, la grande forza dei popoli emerge anche nei tempi più duri: nelle tenebre dei loro dolorosi passati recenti i russi e i polacchi hanno saputo sfidare la disumanizzazione sovietica, gli ucraini hanno rinunciato alle bombe atomiche che avevano al momento della loro separazione da Mosca perché questa fosse consensuale e milioni di giovani arabi hanno ripudiato la scorciatoia teocratica dei loro fondamentalisti urlando nel 2011 in tutte le loro piazze “il popolo vuole la caduta del regime”, affermando chiaramente che la sovranità è popolare e questa sovranità vuole cambiare e ammodernare se stessi prima degli altri.
C’è dunque un mix di aiuti e influenze tra popoli e fedi e lo affermo non solo pensando a Giovanni Paolo II, ma anche al volto dell’islam popolare, che sta con il mondo, non contro, e che si è visto in tutte i volti delle piazze della primavera. Non posso dimenticarli e fare dei fanatici i loro simboli, sebbene esistano e non siano certo pochi. Questo ci porterebbe a credere nell’impossibilità di vivere insieme. L’altro così diviene una minaccia esistenziale, in sé. E’ quello che è successo con l’invasione dell’Ucraina, determinata dalla convinzione della leadership russa che ciò minasse la propria esistenza.
Ovviamente chi ha espresso questa convinzione nel “migliore” dei modi è stato il patriarca di Mosca, Sua Beatitudine Vladimir Michajlovič Gundjaev, Kirill I, quando ha visto il colonialismo occidentale voler conquistare l’Ucraina nel segno simbolico dei Gay Pride. E’ la divisione tra buoni (la grande madre Russia, imperiale e cristiana) e cattivi (i colonialisti senza fede occidentali). Così Kirill ha fatto però del suo cristianesimo una fede arcigna, chiusa, ostile, in armi contro i figli del male. Ma non mi rassegno a dimenticare, o rimuovere, il volto del suo predecessore, Alessio II.
Francesco con il suo magistero è partito a mio avviso da quanto seppe dire al Gran Mufti di Gerusalemme già nel 2014, “impariamo a comprendere il dolore dell’altro” ed è arrivato all’importanza di riconoscere il diritto all’autodifesa per andare al di là di essa e dell’odio che la trasforma in altro. Sono due passaggi inseparabili e la frase più chiara al riguardo dell’autodifesa, che non dimentica la necessità di comprendere il dolore dell’altro, l’ha pronunciata tornando dal Kazakhstan, quando al riguardo della lotta armata degli ucraini ha detto che “chi difende ama”: “ Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama”.
Proprio in quel discorso il papa, definito da alcuni filo-Putin, ha visto la curiosità di un leader russo che in quei giorni faceva la guerra in Ucraina e si presentava come garante di pace di Nagorno Karabakh, tutelando gli armeni. Qui c’è una lezione politica che nessuno ha colto, visto che Putin ha prontamente mollato gli armeni del Nagorno Karabakh al loro destino appena i suoi interessi lo hanno richiesto.
Ecco che viene un’altra importantissima lezione, a mio avviso: davanti al diritto all’autodifesa si tratta non solo di riconoscerlo, ma di agire per evitare che l’autodifesa diventi una vendetta, o sfoci in quella che René Girard ha definito “violenza mimetica”. È questo che vuol dire “chi difende ama”: chi difende ama la patria, non odia l’altro. È qui a mio avviso un ruolo attivo della non violenza davanti all’esercizio del diritto all’autodifesa.
La non violenza dunque svolge il suo ruolo stando accanto a chi esercita questo diritto rendendolo consapevole che la sua lotta si distingue a partire dalle modalità. Padre Paolo Dall’Oglio lo ha detto in maniera perfetta: non si tratta di far seguire alla rabbia l’orgoglio, ma di tenere insieme alla collera la luce, questa luce che trasforma la collera in “capacità di intraprendere”. Questa non violenza così non si pone fuori dalla realtà che la circonda, ma opera fattivamente e concretamente per cambiarla.
La visione a mio avviso davvero magisteriale di Francesco non pretende l’impossibile dalle vittime, ma ci impedisce di dividere, piuttosto ci unisce. Tutti difendiamo noi stessi in un qualche momento, ma poi l’orgoglio, la rabbia, ci spiegano che anche offendendo si difende. Il magistero di Francesco no, e quindi non divide in buoni e cattivi, non cede a letture ormai superate, ideologiche e così non cade nell’errore di classificare popoli o religioni buone e popoli e religioni cattive.
Le religioni sono tutte parti del progetto pluralista di Dio. Ho difficoltà a non riconoscermi in quanto ha detto sul conflitto tra Israele e Hamas: “È diritto di chi è attaccato difendersi, ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti […] Il terrorismo e gli estremismi non aiutano a raggiungere una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi ma alimentano l’odio, la violenza, la vendetta e fanno solo soffrire gli uni e gli altri”. È uno dei pochi discorsi che mi è parso non rispondere a narrative inconciliabili.
Rimanendo nell’ottica dei buoni contro i cattivi non si svolge alcun ruolo: o si fa il controcanto al proprio mondo di appartenenza, o il canto, l’elogio di esso. È il rischio che corriamo condannando o esaltando l’Occidente, vissuto come identità totale. A questi due atteggiamenti risponde a mio avviso Francesco con grande visione. A chi veda l’urgenza di una casa sicura, con quale identificarsi comunque, risponde il numero 27 di Fratelli tutti: “Anche oggi, dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il deserto. Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. È il territorio di ciò che è “barbaro”, da cui bisogna difendersi ad ogni costo”.
All’urgenza di essere ideologicamente antagonisti, abrasivi del proprio passato o presente invece spiega molto il messaggio al corpo diplomatico in cui mette in guardia dalla cancel culture: “Si va elaborando un pensiero unico costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca”.
Il magistero di Francesco parla a tutti, riconosce la complessità e le diversità in ogni contesto, non semplifica o divide il mondo, perché -per prima cosa- mi sembra consapevole che i nazionalismi sono specializzati nel trovare i colpevoli, ma non le soluzioni. Se potessi inviterei a porre termine ai sussulti ideologici, anche quelli che sanno di anni Settanta, che dai nostri opposti estremismi sembrano indicarci un urto che in fin dei conti è lo scontro di civiltà con l’altro o con noi stessi, per doppiezze o altre colpe che esistono, ma nell’indisponibilità a vedere anche quelle dei nostri rivali, che si presentano come “antagonisti”. Francesco, ad esempio, non ha taciuto sulle deportazioni di massa da Aleppo est, nel 2017, non era possibile tacere in omaggio allo schema antagonisti contro colonialisti. Solo lui da tutto il cosiddetto Occidente seppe chiedere ad Assad (e quindi a Putin) di rispettare il diritto umanitario internazionale in zona di guerra. Non ricordo altri, tra i grandi come tra i piccoli. Quell’assedio ha sdoganato la pulizia etnica alle porte d’Europa nel nuovo millennio.
Ovviamente la storia non è priva né di colpe né di sopraffazioni: ci sono state e ci sono, evidenti. La prima colpa però è quella di condannare in blocco civiltà, religioni, culture, popoli. Evitato questo potremmo provare a procedere nella difficile ricerca di soluzioni, le più eque possibili. Ripeto, sarà molto difficile, ovunque le narrative e le emozioni divergono profondamente. Ma se non evitiamo la condanna in blocco di popoli o fedi sarà impossibile. Ecco perché pensarci insieme sarebbe fondamentale. Il digiuno, che è pur sempre una privazione, può unirci più di ogni acquisizione.