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Il monito di Standard & Poor’s e i compiti della politica nazionale. L’analisi di Polillo

Le paure di chi temeva un report più duro, le speranze di chi lo auspicava. Muoia il governo con tutti gli italiani. L’agenzia di rating ha confermato il giudizio passato, che rimane fermo a BBB, e mantiene anche stabili le valutazioni sulle prospettive future dell’Italia. Le previsione di crescita rallentano, ma questo non cambia il “voto” sulla sua capacità di gestire il proprio debito nei confronti del mercato. L’analisi di Gianfranco Polillo

Dopo il verdetto di Standard & Poor’s che dirà, soprattutto che farà, l’opposizione? Insisterà nella sua visione apocalittica – questo governo è la rovina del Paese – alternando previsioni di sfracello alla richiesta di maggiore risorse – che non ci sono – per i fini più disparati? Dalla sanità alla statalizzazione di una parte del salario minimo. Dimentichi dei guasti prodotti dal tandem giallorosso, che, nella passata legislatura tra bonus e reddito di cittadinanza, ha devastato la finanza pubblica italiana per gli anni a venire.

E speriamo che il conto non debba diventare ancora più salato, di fronte alla massa enorme di garanzie statali, concesse a favore delle imprese, durante il periodo dell’epidemia. Il totale di questa esposizione supera i 315 miliardi di euro, di cui oltre il 30 per cento a favore di micro imprese. Se la crisi dovesse inasprirsi, è facile prevedere una massa di insoluti bancari, che darebbero luogo alla relativa escussione delle garanzie accordate e quindi ad un tiraggio fiscale senza precedenti. Ed allora altro che “manovra poco ambiziosa”, come quella che è stata così definita.

C’è quindi il rischio concreto di essere risucchiati in un tragico passato. Il morto che afferra il vivo, come diceva il vecchio Marx. Ipotesi che Giuseppe Conte cerca continuamente di esorcizzare descrivendo la sua passata esperienza di Presidente del consiglio, come il migliore dei mondi possibili. Continuando in questo modo si troverà con una scolapasta in testa e la mano sul ventre, pensando di essere Napoleone Bonaparte.

Per fortuna S&P aiuta a far chiarezza, diradando il fumo della vigilia. Le paure di chi temeva un report più duro. Le speranze di chi lo auspicava. Muoia il governo con tutti gli italiani. L’agenzia di rating ha confermato il giudizio passato, che rimane fermo a BBB, e mantiene anche stabili le valutazioni sulle prospettive future dell’Italia. Le previsione di crescita rallentano, ma questo non cambia il “voto” sulla sua capacità di gestire il proprio debito nei confronti del mercato.

Valutazione più che oggettiva. Non si dimentichi che rispetto al Def, della scorsa primavera, il rapporto debito/Pil è destinato a migliorare, in media dell’1,3 per cento del Pil all’anno. Merito soprattutto della revisione, operata dall’Istat del prodotto interno e della più elevata crescita dell’inflazione, che fa aumentare il Pil nominale di qualche decimale (0,3 per cento l’anno) nel prossimo triennio. Facendoci, in compenso, pagare maggiori interessi sul debito (circa 12,5 miliardi di media all’anno, nel periodo 2024/26). Va invece molto meno bene per quanto riguarda l’indebitamento netto, destinato a crescere in media di uno 0,6 per cento l’anno, nel corso del quadriennio 2023/26. Soprattutto a causa di quel pregresso di cui si diceva in precedenza. S&P stima nello 0,8 per cento del Pil il maggior deficit dovuto, solo quest’anno, agli incentivi sul super-bonus.

Che il sentiero fosse stretto lo si sapeva da tempo. Difficile quindi comprendere le motivazioni che hanno spinto l’opposizione a far quadrato dietro barriere di latta. Forte il sospetto relativo alla mancata comprensione della fase che non solo l’Italia sta vivendo. Sfogliando la Nadef fa impressione vedere il peso dei diversi coefficienti di rischio. La principale incognita è data dal commercio internazionale che rischia di implodere, mettendo fine a quel ciclo positivo che aveva favorito l’economia italiana in quel lungo decennio, che va dal 2012 ai giorni nostri.

La crisi greca l’aveva colta in un momento di grande difficoltà. La partite correnti della bilancia dei pagamenti evidenziavano un passivo strutturale, che aveva raggiunto e superato il 3 per cento del Pil. Segno evidente di un Paese che viveva al di sopra delle proprie possibilità. Com’era dimostrato, del resto, dal debito contratto nei confronti dell’estero, a sua volta superiore al 24 per cento del Pil. Mentre quello complessivo aveva oltrepassato da tempo la soglia del 100 per cento del Pil. La crisi di allora fu pilotata dal valore degli spread, che avevano raggiunto i 570 punti base, ad un passo dal default.

Per uscire da quel baratro, ci sono voluti sforzi immani. Ma, con il tempo, sembrava almeno che il più era fatto. L’Italia era tornata in carreggiata. Le aziende più fragili erano fallite, consentendo un processo di riconversione produttiva a favore, soprattutto, dei settori legati all’export ed al Made in Italy. Nel giro di pochi mesi, a seguito della compressione della domanda interna, il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti era stato eliminato ed i debiti con l’estero progressivamente saldati. Fino a capovolgere l’intera situazione.

Nel 2021, l’Italia era divenuta creditrice verso l’estero per un importo pari all’8,1 per cento del Pil. Da questo punto di vista, la quarta potenza finanziaria dell’Eurozona, dopo la Germania, l’Olanda ed il Belgio. Tanto per avere un’idea: i debiti italiani verso l’estero, nel primo trimestre del 2014 ammontavano a 410 miliardi di euro. I crediti concessi nel secondo trimestre del 2023 sono stati invece pari a oltre 105 miliardi. Con un calo di poco più di 30 miliardi rispetto al massimo del terzo trimestre del 2022. Perdita che comunque non aveva inciso sulla sua posizione relativa all’interno dell’Eurozona.

La relativa solidità dell’economia italiana non è quindi venuta meno, nonostante il susseguirsi di tre shock esogeni che avrebbero steso un gigante. Il Covid del 2020, quindi dopo il breve recupero, l’invasione da parte di Putin dell’Ucraina del febbraio 2022. Ed ora gli orrendi attentati di Hamas contro Israele e il successivo dispiegarsi di una nuova guerra. Fenomeni che hanno comportato un forte rafforzamento del vincolo esterno in grado di condizionare, oltre misura, la politica di ciascuno Stato.

Le relative implicazioni, soprattutto nel caso italiano considerata la sua storia più recente, andrebbero attentamente meditate da tutte le forze politiche. Per coglierne le necessarie implicazioni in base alle quali elaborare le proprie strategie politiche. Non per alterare il normale rapporto dialettico tra maggioranza ed opposizione. Ma per una nobile finalizzazione. Che è poi quella della salvaguardia degli interessi di lungo periodo della Nazione. Nazione che non è un concetto astratto, ma risponde a precisi canoni interpretativi di carattere costituzionale, come facile vedere dal susseguirsi degli articoli 9, 16, 67, 87 e 98. Riferimenti che, per troppo tempo, per il prevalere di un eccesso di cosmopolitismo, non sono stati degni della necessaria considerazione. Ma che ora la crisi riporta al centro dell’agenda politica nazionale ed europea.

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