Le sorti del lavoro non dipendono solo dai governi ma anche dall’equilibrio dei soggetti sociali. Le loro proposte devono saper unire i soggetti tutti, dimostrando loro stessi che fanno parte della partita economica e sociale, non della contesa tra maggioranza e opposizione politica. L’analisi di Raffaele Bonanni
Ormai è più che accertato, la politica ha occupato stabilmente il campo delle politiche del lavoro. Ma non lo fa come accade in un Paese normale con democrazia normale, dove i compiti sono naturalmente distribuiti. I partiti si occupano dei gangli vitali della economia e dei fattori dello sviluppo, le parti sociali attraverso i contratti stabiliscono le condizioni di funzionamento della organizzazione del lavoro nelle attività produttive e della redistribuzione della ricchezza prodotta.
Man mano che la cultura del populismo avanza, ecco che nodi tecnici e comunque elementi il cui funzionamento ha bisogno di una esperienza e conoscenza dettagliata, ecco che vengono semplificate e offerte alla opinione pubblica con l’accuratezza di un boscaiolo che si improvvisa intagliatore. Lo abbiamo visto nel tentativo di legiferare sul salario minimo per un gruppo ristretto di lavoratori di fronte improbabile consapevolezza della gravità in cui si trova la totalità dei lavoratori italiani, unici in Europa a mantenere la stessa paga di trent’anni fa.
Lo abbiamo subito con leggi del lavoro che vengono cambiate all’avvicendamento dei governi. È accaduto ai danni della legge Biagi e del job act; un moto conservatore inarrestabile sostenuto da teorie lavoristiche non riscontrabili in nessun altro Paese industrializzato che ha fortemente danneggiato il Paese. Ora si annunciano altre iniziative da parte di Conte e di Schlein sulla riduzione dell’orario a pari salario senza precisare per fare che, a quali costi, e chi ne può fruire ed a quali condizioni. Proposte ancora una volta buttate lì a scavalco dei soggetti sociali, che a questo punto vengono delegittimati nel loro ruolo, o chiamati in causa per accodarsi ai loro propositi partitici.
Sindacati e associazioni d’impresa vengono messi in grande difficoltà da alcuni di loro propensi a ritagliarsi il ruolo di agitatore di piazza propedeutico all’azione politica anziché al necessario profilo di autonomo soggetto che negozia con imprese e governo. Ed infatti Landini propone agli altri sindacati movimenti di piazza che dovranno culminare nello sciopero generale, che dovrà enumerare tutte le disgrazie italiche che ingrossano proprio perché nessun soggetto intende collaborare con l’altro alla gestione dei fattori dello sviluppo perché impegnato in una perpetua rincorsa elettorale.
Ma a questa proposta si oppone la Cisl che giustamente invita a restare nei luoghi del confronto e a migliorare alcune buone soluzioni annunciate dal governo sul taglio al cuneo fiscale per i lavoratori, e ad altre attenzioni sui tagli fiscali a favore dei salari di produttività e per gli orari straordinari. Una differenza di valutazione non di poco conto che si scontra con l’idea che più che annunciare scioperi generali a secondo dei governi che si hanno, occorre svolgere il compito principale di un sindacato di rappresentare soluzioni equilibrate alle controparti.
Le sorti del lavoro non dipendono solo dai governi ma anche dall’equilibrio dei soggetti sociali. Le loro proposte devono saper unire i soggetti tutti, dimostrando loro stessi che fanno parte della partita economica e sociale, non della contesa tra maggioranza e opposizione politica.