È comprensibile che i partiti vogliano vincere le prossime elezioni. Ma sarebbe ancora più normale che pensino prima cosa succederà dopo qualche anno di febbri elettorali monzesi. Il commento di Francesco Sisci
Cosa si fa quando a un’elezione si presenta al voto solo il 18% degli aventi diritto e l’82% dichiara, con la propria assenza, di non sentirsi rappresentato da alcuno dei partiti o dei candidati in lista? Come è accaduto qualche giorno fa nella ricca Monza, non in una desolata provincia afghana o Gabonese, si procede a proclamare il vincitore.
Benissimo. Ma si è taciuto il nome dello sconfitto. In questo caso è la democrazia italiana che, con i suoi partiti e i suoi candidati non riesce, o forse non vuole, più rappresentare il popolo italiano. Comunque questo popolo non si riconosce nei partiti di governo e opposizione.
Inoltre tale notizia è stata trascurata e certamente non analizzata, non approfondita con lo scandalo dovuto, dai mezzi di informazione.
Così diventa una disfatta profonda e sistematica per tutto il Paese.
Il governo e i partiti non raccolgono fiducia, quindi i cittadini che possono fare? Abbarbicarsi ai loro piccoli o grandi privilegi semifeudali (la licenza del taxi, la spiaggia a ufo dello stato, il reddito di cittadinanza) oppure, se sono giovani e ambiziosi, emigrare. Un sistema sano dovrebbe fare il contrario: tenere i giovani ambiziosi ed eliminare i privilegi. Ma così non è.
Forse è perché votano gli spiaggisti e non gli ambiziosi emigrati, o è perché una politica irresponsabile non si preoccupa dei primi della classe, ma anzi li respinge. Comunque il risultato è Monza che indica il futuro del Paese.
È comprensibile che i partiti vogliano vincere le prossime elezioni. Ma sarebbe ancora più normale che pensino prima cosa succederà dopo qualche anno di febbri elettorali monzesi. L’Italia smette di esistere. È peggio della prospettiva di una dittatura, è lo squagliamento del Paese, la sua implosione culturale e l’invito, di fatto, a qualche potenza vicina, Francia, Germania o la Libia di Haftar magari, di venire prima o poi a riempire il vuoto pneumatico.
Per affrontare questo vuoto, cresciuto nell’arco di due-tre decenni, ci vuole tempo, si può obiettare. Ma si può cominciare con una politica più sana sul tema tanto controverso dell’emigrazione. Ciò passa dal riconoscimento che non ci sono formule magiche né soluzioni pret a porter.
L’emigrazione si può fermare e organizzare solo scendendo sotto il Sahara con un piano di lungo termine che coinvolga una forza europea e una benedizione americana. Quando la gente ha attraversato il deserto ed è arrivata in Libia, Tunisia, Egitto o Marocco il problema è solo dove sbarcare. Qui le scelte non sono troppe, anzi. C’è solo la Spagna, la Grecia, Malta o l’Italia.
Quindi o si fa una guerra della disgrazia tra questi governi, che fa saltare ogni equilibrio nel vecchio continente, oppure si apre un ragionamento di medio lungo termine con accordi temporanei nel breve.
Questo in Italia passa per eliminare la questione dell’emigrazione dai giuramenti elettorali del governo di oggi o di domani. Sono come le promesse di abolire la povertà, fondare il Regno dei Balocchi o il Paradiso in Terra. Sono imbrogli, più o meno consci di gente che vende sogni futuri agli altri in cambio di ricchezza propria oggi.
Il ritorno al realismo, al pragmatismo dell’opposizione ma soprattutto di chi è al governo con una maggioranza impari, è il primo passo per cercare una via di dialogo con gli elettori. Il secondo passo è la cooptazione delle intelligenze, molto spesso fuori dal parlamento.
Senza ciò, chiunque vinca le prossime elezioni avrà sconfitto l’Italia.