Annegata nel plurale indistinto delle Chiese d’Oriente, la “Chiesa degli arabi” romperebbe l’isolamento delle comunità locali cristiane e dislocate, emarginate, minacciate, ingessate, per portarle a tornare a essere, insieme, protagoniste della cultura araba. Questo renderebbe il giorno di digiuno un nuovo enorme passo avanti per gli arabi in quanti tali. La riflessione di Riccardo Cristiano
C’è un nome che oggi dovrebbe riuscire dai cassetti impolverati della memoria cattolica. È il nome di Jean Corbon, l’autore di un prezioso ma dimenticato volume della seconda metà del secolo scorso: “La Chiesa degli arabi”. Cosa vuol dire? Che esistono arabi cristiani! Non fenici o altre identità scomparse nei secoli, ma “arabi”. E perché dovrebbe essere ricordato oggi? Perché oggi la Chiesa cattolica promuove una giornata di digiuno per la pace in Medio Oriente. E con chi si fa questa pace? Certo, la Chiesa non può rinunciare a quella che per essa è la Terra Santa, ma arriva a questo appuntamento forte di sconfitte che ne hanno quasi cancellata la presenza regionale. Così parlare di pace imporrebbe una riflessione su come questa voce si sia ridotta a marginale e apparentemente declamatoria. Il primo esempio che viene alla mente è quello della cittadina siriana di Maalula, di cui si parlò ai tempi del terrorismo come della cittadina dove si parla ancora la lingua di Gesù, l’aramaico. Dunque chi sono i cristiani di quelle terre? Non sono un avanzo di passati remoti. Tanto è vero che con la traduzione in arabo della Bibbia, nell’Ottocento, hanno ammodernato quella lingua, creando l’arabo oggi usato da tutte le catene televisive, semplificato rispetto a quello coranico. A quel tempo i cristiani erano il 25% del popolo del sultano, oggi sono meno del 10%.
È quello della grande esperienza della Rinascita araba dell’Ottocento il cammino da riproporre e riprendere. E lo dimostra proprio il Libano, che dell’arabicità si è proprio dimenticato per la durezza sanguinosa della storia. È il Paese dove la presenza cristiana non è solo numerica (un reale 30% della popolazione) ma anche istituzionale. Il Libano è una Repubblica presidenziale e il presidente è per regola non scritta ma indiscussa un cristiano maronita, come i capi dell’esercito e della banca centrale. Ma i cristiani, dividendosi tra amici e nemici di Hezbollah, hanno confermato che il Libano oggi lo determina Hezbollah. Il presidente cristiano rimasto in carica per gli ultimi sei anni, fino a ottobre scorso, alleandosi con Hezbollah e riconoscendo il suo diritto a essere la sola milizia in armi nel Paese ha riconosciuto che il Libano non ha diritto a una sua politica di difesa, cedendola alla milizia filo-iraniana. Il risultato è che i cristiani, divisi, non sanno indicare un candidato alla presidenza, vacante da un anno. Questa spaccatura non è ricomponibile riguardando la stessa sovranità nazionale.
In un altro bastione cristiano, l’Egitto, la robusta minoranza copta (ancora un reale 10% della popolazione) ha visto la sua Chiesa fare una scelta simile a quella dei filo Hezbollah libanesi: affidarsi alla protezione del regime, sebbene qui la popolazione copta fosse in larga parte simpatetica con la protesta di piazza contro Mubarak.
La pressoché esaurita presenza cristiana in Terra Santa può invertire questa rotta? È molto difficile, sebbene vada detto che il patriarca Pizzaballa ha trovato il modo per ridare credibilità al discorso cristiano che ha un ruolo se si libera dal nazionalismo per riscoprire nella sua trasversale presenza un volano di reciproca accettazione e quindi colloquio. Perché in tutti i Paesi arabi l’errore cristiano (almeno della maggioranza delle gerarchie cristiane) è stato così brillantemente riassunto da una intellettuale libanese: “siete afflitti dalla sindrome dell’albergo. Non considerate questi Paesi casa vostra, ma un albergo, che se è troppo scomodo si cambia con un altro. Invece questi sono i vostri Paesi e il proprio Paese se non va si modifica, si lotta per ammodernarlo, migliorarlo”.
Facile a dirsi, più difficile a farsi. Ma certo l’oggi conferma che i cristiani del Medio Oriente o prendono in mano il loro destino o non avranno futuro.
Questa giornata di digiuno con lo slogan della “pace” dovrebbe dunque lanciare lo slogan della “cittadinanza”. I cristiani potrebbero ricominciare dicendo che visto che ormai parlano arabo da anni e anni sono a tutti gli effetti arabi, che rivendicano dunque piena cittadinanza in Paesi che arabi si dicono, come d’altronde in Israele, una presenza da valorizzare.
Sfidare regimi come quelli arabi, odiati dai loro popoli non è facile, ma farlo in nome dell’identità “araba” dei cristiani di quel mondo toglierebbe di mezzo almeno la vecchia accusa fondamentalista di essere le quinte colonne dell’Occidente, come in parte è stato per colpe di molta parte delle gerarchie ecclesiastiche.
Per essere credibili dunque a mio avviso dovrebbero cominciare a parlare di “Chiesa degli arabi”. Siri, maroniti, caldei, assiri, melchiti, copti, non devono rinunciare alle loro preziose liturgie, ma potrebbero cercare il modo di parlare come insieme, cristiani nello stesso maremoto, non come Chiese etniche che si rapportano a gruppi chiusi in un’appartenenza sostanzialmente tribale.
Ecco la Chiesa degli arabi, presentata da un grande intellettuale cristiano nel 1977, Jean Corbon. Cosa differenzia oggi il discorso di un maronita a Beirut da quello di un caldeo? Lo sforzo proposto da Corbon chiedeva già allora di far presente a molti occidentali che ci sono arabi cristiani. Oggi è giusto chiedersi: lo sanno?
Annegata nel plurale indistinto delle Chiese d’Oriente, la “Chiesa degli arabi” romperebbe l’isolamento delle comunità locali cristiane e dislocate, emarginate, minacciate, ingessate, per portarle a tornare a essere, insieme, protagoniste della cultura araba. Questo renderebbe questo giorno di digiuno un nuovo enorme passo avanti per gli arabi in quanti tali. È il ruolo che i cristiani hanno avuto nell’Ottocento arabo l’obiettivo che si dovrebbe porre per l’oggi. Ripartire dal glorioso passato della Nahda, il rinascimento e risorgimento arabo e cristiano in buona parte offre una strada per dire che un futuro volendo può esserci.