Skip to main content

Riforme verso la Terza Repubblica? Risponde l’ex premier Dini

Israele ha diritto a difendersi, ma va evitato il massacro di civili palestinesi. Gli Usa mediano per evitare un’escalation che coinvolga i Paesi Arabi a favore di Hamas. Preoccupa l’antisemitismo anche in Europa. L’Italia alle prese con una Manovra senza visione, con una riforma costituzionale che non convince e con un rischioso ritardo sulla ratifica del Mes. Salvini, la spina nel fianco per Meloni. Conversazione con l’ex presidente del Consiglio, Lamberto Dini

Per commentare la polveriera del Medio Oriente, parte dalla “preoccupante presa di posizione della Turchia, che ha legittimato Hamas”. Siamo alle prese con la “vendetta di Israele, che rischia di trasformarsi in un massacro per i civili palestinesi”. Ma la preoccupazione più profonda è “la nuova ondata di antisemitismo che serpeggia anche in Europa e negli Stati Uniti”. Sì, perché se è vero che “bisogna fare il possibile per evitare di coinvolgere la popolazione civile” è altrettanto vero che “Israele non solo ha il diritto di esistere ma di difendersi”. Dall’altra parte della cornetta è la voce lucida dell’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini a cadenzare i ragionamenti, intervallandoli a brevi pause che danno alle parole un vigore quasi teatrale. E, nel caso di specie, drammatico. Dagli scenari internazionali alla politica interna.

Presidente Dini, un flash sulle parole del premier Giorgia Meloni alla convention Dc organizzata da Gianfranco Rotondi a Saint Vincent: “Con la riforma Costituzionale il Paese entrerà nella Terza Repubblica”. Cosa ne pensa?

L’idea dell’elezione diretta del presidente del Consiglio a me non ha mai convinto. Checché ne dica l’attuale ministra alle Riforme ed ex presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, se il premier è eletto dal popolo – e quindi gode di una legittimazione popolare che “vale” di più rispetto a quella delle Camere – c’è necessariamente un ridimensionamento dei poteri del Presidente della Repubblica. Quello del passaggio alla Terza Repubblica mi pare più che altro uno slogan.

Allarghiamo lo sguardo al Medio Oriente. È stato ribadito a più riprese e in diverse sedi che l’impegno deve essere orientato a sconfiggere Hamas, preservando il popolo palestinese. Un modo per rimettersi sulla rotta tracciata a Oslo nel settembre del 1993. La ritiene una soluzione percorribile?

La soluzione dei due popoli e due Stati, di cui ha parlato anche la nostra presidente del Consiglio non è più possibile. Per una serie di ragioni, tra le quali gli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania. Le politiche portate avanti da Netanyahu in questi anni hanno completamente disatteso ciò che era stato sancito tra Rabin e Arafat.

Meloni ha rimarcato la necessità di una nuova classe dirigente all’Autorità Nazionale Palestinese.

Può essere una buona idea, ma senz’altro questi ragionamenti non si possono fare nelle condizioni (anche politiche) in cui ci troviamo. L’Anp non tiene le elezioni dal 2009 perché teme l’avanzata e l’affermazione di Hamas.

Gli Stati Uniti in questa fase agendo in funzione deterrente rispetto all’ipotesi di un attacco di terra degli israeliani a Gaza. In premessa ha parlato della preoccupazione per la presa di posizione della Turchia. Come è da leggersi?

Erdogan in questo modo ha legittimato i terroristi di Hamas. E questo è pericolosissimo anche perché è un membro della Nato. Gli Usa stanno esercitando un’azione di deterrenza verso Israele non solo perché temono un massacro di civili, bensì perché vogliono scongiurare il deflagrare del conflitto e l’appoggio ad Hamas che può arrivare dai paesi arabi con la regia dell’Iran.

Veniamo alla politica interna. L’esecutivo è alle prese – non senza qualche dissapore anche interno – con la stesura della Manovra. Che impressione ha?

Mi pare che sia più che altro un insieme di piccole misure volte a sterilizzare ad esempio il fenomeno dell’inflazione, ma che manchi di visione. Questa Finanziaria non aggredisce il vero tallone d’Achille italiano: il debito pubblico. E, tra l’altro, questi continui attacchi alla Bce rappresentano un errore strategico.

In questo quadro complesso ci sono due dossier sui quali in qualche modo si misurerà la credibilità italiana in Europa. La ratifica del Mes e la riforma del Patto di Stabilità. Si riuscirà a ottenere un compromesso sugli investimenti?

L’atteggiamento sul Mes mi pare poco comprensibile. La premier Giorgia Meloni nel corso del primo anno del suo governo è riuscita a riaffermare il ruolo dell’Italia sullo scacchiere internazionale posizionandosi saldamente accanto agli Stati Uniti (sulla guerra in Ucraina, ad esempio) e quindi sposando la linea assunta dall’Europa. Tuttavia, la mancata ratifica del Mes espone il nostro Paese al rischio di perdere credibilità in Ue. Questo si riflette sulle “trattative” per l’approvazione del nuovo Patto di Stabilità. Ma l’eventuale sponda con gli altri Paesi la si potrà costruire solo con la ratifica del Meccanismo. Peraltro ne va del nostro posizionamento anche agli occhi dei mercati internazionali e degli investitori esteri, di cui abbiamo grande bisogno.

Si avvicina la scadenza elettorale europea. La maggioranza al momento marcia unita, anche se i partiti appartengono a “famiglie” differenti in Ue. Quale esito prevede?

Ci sono tutte le condizioni per un buon risultato dei partiti di governo anche in Europa. La vera spina nel fianco per Meloni resta Matteo Salvini che, come gruppo politico, appartiene a Id nel quale convergono partiti pericolosamente sbilanciati a destra: Afd e Rn. Ma il segretario del Carroccio è un problema per la premier anche a livello interno.

Immagino si riferisca al pressing sul tema pensionistico, a lei peraltro molto caro (fu il suo governo ad arrivare alla svolta per il sistema contributivo nel 1995). 

Proprio così. L’attacco continuo di Salvini alla riforma Fornero è, politicamente, molto insidioso anche per la tenuta delle casse statali. La discussione sulle pensioni è molto seria e deve essere, prima di tutto, incardinata sulla stabilità e la salvaguardia dei conti pubblici. E considerando il fattore della demografia che è tutt’altro che secondario. Quella del 1995, benché difficile da digerire per i sindacati in un primo momento, fu una vera svolta per questo Paese. Non era più sostenibile che ci fossero dipendenti statali pensionati a 40 anni a fronte di un’aspettativa di vita di oltre ottanta.

×

Iscriviti alla newsletter