Sin dalle prime ore dopo il sanguinoso attacco di Hamas, si è pensato al ruolo che Hezbollah avrebbe svolto contro Israele. Ci sono vari calcoli che l’organizzazione libanese di Nasrallah sta valutando, perché se da un lato la narrazione porta alla guerra, dall’altro il pragmatismo spinge verso un coinvolgimento a bassa intensità
Tra due giorni Hassan Nasrallah, il leader spirituale del più importante gruppo armato del Medio Oriente, parlerà pubblicamente della situazione con Israele. Hezbollah, l’organizzazione politica armata guidata da Nasrallah è ormai in grado di decidere le sorti di Beirut, ed è in questo momento anche in grado di determinare parte dei destini di questa ennesima vecchia, nuova crisi in Medio Oriente.
Anche perché il gruppo è ancora tecnicamente in guerra dal 2006 con gli israeliani, detestati per ragioni ideologiche e calcolo geopolitico. Nasrallah è apparso pochi giorni fa in un video diffuso dalla costante, intensa, efficace propaganda dell’organizzazione libanese: un’apparizione fugace, di spalle, ma simbolica. Che succederà? Con 13 membri che siedono tra i 128 legislatori del parlamento libanese, diverse decine di alleati nell’organismo e alcuni dei suoi esponenti che servono nel gabinetto di governo, Hezbollah fa parte della struttura istituzionale del Libano e le sue azioni ricadono sui cittadini libanesi.
Hezbollah nel conflitto
Sin dalle primissime ore dopo l’attacco barbaro di Hamas, sabato 7 ottobre, la preoccupazione che la situazione potesse sfociare in qualcosa di regionale ruotava attorno a cosa avrebbe fatto Hezbollah. Prima realtà dell’Asse della Resistenza attualmente composto da una serie di milizie sciite collegate a doppio filo con i Pasdaran, l’organizzazione di Nasrallah ha preso parte agli scontri attraverso scambi di artiglieria e armi leggere, missioni di droni armati e incursioni di terra limitate.
L’obiettivo è di bloccare parte delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) al nord, complicando le operazioni terrestri sulla Striscia (al sud). Tatticamente, le operazioni sul confine libanese – a cui Israele ha risposto via via – potrebbero esporre un fianco. Anche perché Hezbollah si stima possieda qualcosa come 150mila tra razzi e soprattutto missili (anche tecnologici e capaci), le cui componenti e capacità sono state fornite dalla teocrazia iraniana. Uno di questi, lunedì, ha sfondato lo schermo di Iron Dome e colpito un edificio civile a Kiryat Shimona, nel nord di Israele.
Se gli Stati Uniti hanno rafforzato la protezione aerea in Medio Oriente – attraverso nuove batterie terra-aria e navi in grado di intercettare vettori missilistici – è anche perché temono che un coinvolgimento maggiore di Hezbollah possa produrre quella che viene definita “saturazione” nei cieli israeliani. Ossia lanciare tanti missili da rendere Iron Dome inefficace. E il rischio sarebbe ulteriore se oltre al fronte libanese si infiammassero quello siriano o quello yemenita (dove si trovano altre milizie collegate in diversi modi ai Pasdaran) o addirittura quello iraniano.
I leader di Hezbollah hanno finora ordinato alle loro forze di prendere parte alla battaglia solo a bassa intensità. Questo è l’elemento centrale a livello strategico-militare, perché un coinvolgimento maggiore dei libanesi potrebbe essere una cartina di torna sole per ulteriori fasi della guerra. Una vera e propria offensiva da parte di Hezbollah influenzerebbe senza dubbio il corso del conflitto, mettendo a dura prova le capacità dell’Idf di combattere su più fronti contemporaneamente.
Che Hezbollah abbia la capacità di impegnare le difese missilistiche israeliane, compreso Iron Dome, in misura molto maggiore rispetto ad Hamas è assodato. Ma il rischio va anche oltre al piano dello scontro diretto: un ingresso in guerra di Hezbollah produrrebbe effetti a ricaduta internazionale, non solo perché potrebbe produrre anche l’aumento delle attività dell’Iran (direttamente o indirettamente), ma perché gli scontri potrebbero essere esportati altrove. La milizia libanese ha già in passato prodotto dozzine di morti con attentati contro gli interessi israeliani in Europa, Sudamerica o Stati Uniti.
Quali sono gli interessi di Hezbollah?
Il 23 ottobre, nel 50° anniversario dell’attacco suicida di Hezbollah alla caserma dei Marines americani a Beirut, Nasrallah ha ospitato i leader di Hamas e della Jihad islamica palestinese, descrivendo l’incontro come un’occasione per concordare “i prossimi passi” che prenderanno insieme in questa “fase delicata” del Medio Oriente. Ma non ci sono indicazioni su quali saranno quei passi.
Dal punto di vista della narrazione interna – ossia ciò che la tiene viva producendo proseliti e garantendo interessi – Hezbollah deve essere in qualche modo parte del conflitto con Israele. Sarebbe incoerente rispetto alle predicazioni contro lo Stato ebraico e l’Occidente di Nasrallah; sarebbe contraria a una storia con cui da decenni si inquadra come leader della resistenza ai sionisti. Hezbollah, inoltre, esiste formalmente come movimento che rappresenta la resistenza del Libano a Israele e questa pretesa serve come giustificazione per mantenere una milizia indipendente – ormai diventata Stato-nello-Stato. Non è un ragionamento accademico, ma è un’eccezione riconosciuta dagli Accordi di Taif del 1989, negoziati dai sauditi, che richiedevano lo scioglimento di tutte le altre milizie libanesi.
Inoltre avrebbe anche ragioni di carattere geopolitico. Unirsi alla guerra potrebbe servire a prevenire una sconfitta di Hamas, la quale indebolirebbe significativamente l’influenza di Hezbollah contro Israele e quella dei protettori a Teheran. Questa connessione è la ragione per cui Hezbollah ha concesso postazioni al sud del Libano alle milizie palestinesi (non solo Hamas, ma anche la Jihad islamica e gruppi minori). E non solo: l‘Iran è in grado di esercitare pressione geopolitica nella regione pubblicizzando la sua sponsorizzazione all’Asse della Resistenza, di cui sia Hezbollah che Hamas sono pilastri fondamentali. Anche a Teheran c’è interesse a non far soccombere le milizie palestinesi.
Non è un caso che il leader delle Quds Force, il comandante dell’unità d’élite dei Pasdaran Esmail Qaani, è stato per svariati giorni a Beirut. Qaani si porta dietro un’eredità pesante, perché ha preso il posto di Qassem Soleimani, generale dall’aurea mitologica, ideatore del network strategico miliziano regionale collegato all’Iran, ucciso in un raid aereo americano nel 2020.
I rischi di unirsi al conflitto
Tuttavia, i rischi di unirsi allo sforzo bellico di Hamas sono enormi. La percezione delle sfide che Hezbollah deve affrontare potrebbe spiegare la riluttanza di Nasrallah a minacciare specificamente di intervenire contro Israele. Possibile che nel calcolo strategico il leader libanese stia valutando il rischio di una doppia dimensione dello scontro: da un lato, avrebbe da affrontare Israele, una potenza militare non indifferente, e potrebbe finire oggetto di operazioni americane (che subentrerebbero per aiutare Israele a non andare in sofferenza); dall’altro la reazione interna e regionale al caos che potrebbe produrre.
Consumare buona parte del proprio arsenale e creare scontento tra i sostenitori meno ideologizzati e i tanti oppositori, ridurrebbe le capacità di Hezbollah di influire sulla politica regionale. In Libano, Hezbollah è diventato il principale rappresentante della comunità musulmana sciita, che costituisce una pluralità ma non la maggioranza della popolazione libanese. Ma all’interno della comunità stessa in molti hanno iniziato a contestarne la linea militarista ed eccessivamente connessa con i Pasdaran.
Sebbene mantenere una retorica anti-israeliana, come fatto da altri angoli del mondo arabo, sia necessario, l’ingresso in guerra potrebbe essere un boomerang. Già durante la guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele, molti libanesi si sono opposti alla scelta di Hezbollah (indipendente, senza passaggi parlamentari e istituzionali) di provocare una guerra con Israele che ha portato a una diffusa distruzione delle infrastrutture e della capacità economica del Libano. In molti in Libano si chiedono da tempo se sia ancora il caso di concedere a Hezbollah certe capacità; ossia si chiedono se l’eccezione concessa per la sua esistenza sia ancora possibile.
Sui calcoli di Hezbollah pesa dunque la consapevolezza di non godere di un ampio sostegno né interno, né nel mondo arabo o tra la Comunità internazionale. E per abbonire gli animi più infiammabili dei proseliti più ideologizzati potrebbe essere sufficiente qualche azione circostanziale come quelle già in atto. Anche l’idea di agire come pedina iraniana è parzialmente superata: l’organizzazione ha una propria agenda, una propria necessità di sopravvivenza (che potrebbe essere migliore se agisse più sganciata dai Pasdaran, anche se potrebbe calarne il sostentamento). È un gioco complesso di equilibri che crea il dilemma per Nasrallah.
Inoltre, a differenza del sostegno, anche emotivo e istintivo, ricevuto da Hamas, gli Stati arabi – a stragrande maggioranza sunniti – probabilmente non appoggerebbero una decisione militarista di Hezbollah, né a livello di leadership né di collettività. Anche perché si stava creando un clima di normalizzazione con Israele, pensato anche in parte per contrastare l’Iran. E qualcosa di esso potrebbe restare anche dopo il conflitto. In definitiva, i fattori che impediscono un’escalation dell’azione di Hezbollah contro Israele sembrano, almeno nella fase attuale della guerra, superare le considerazioni che potrebbero costringere Hezbollah a unirsi ad Hamas in una battaglia totale contro l’Idf. Tuttavia, c’è da aspettarsi ambiguità dalle parole di Nasrallah, anche perché è quell’ambiguità parte della forza dell’organizzazione.